10 giu 2014

I finti keynesiani

È una moda politica ricorrente quella di richiamarsi a Keynes anche quando mancherebbero i requisiti minimi per farlo.
Ne è la prova una delle recenti affermazioni di Renzi che si è presentato come il propugnatore di una riforma keynesiana che dovrebbe interessare l'Europa intera. Naturalmente una proposta concreta non è stata avanzata, ma si continua con la retorica del “rigore” e la solita demonizzazione della spesa pubblica come causa di tutti i mali.
Il sostegno che il suo partito ha dato al governo di Mario Monti – un anti-keynesiano per eccellenza, un sostenitore dell'austerità e persino della necessità della crisi economica nonché distruttore della domanda aggregata per sua stessa ammissione – non ha impedito all'attuale Presidente del Consiglio di richiamarsi al grande economista britannico.
Ma questi rovesciamenti lessicali non sono una novità. C'è perfino chi ha avuto l'ardire di definire keynesiano il Ministro Padoan, uomo del Fondo Monetario, nonché difensore dell'austerità e consapevole vessatore (anche lui come Monti per propria ammissione) del popolo italiano.
Nell'epoca dell'austerità e del neoliberismo dominante è lecito appellarsi al keynesismo, purché se ne tradiscano i principi. Ciò è stato persino teorizzato, come dimostra la scuola dei cosiddetti “keynesiani bastardi”, ovvero di coloro che hanno pervertito le teorie del maestro per insinuarvi i germi dell'economia neoliberale. Ciò, ovviamente, non allo scopo di attualizzarlo, operazione invece compiuta con successo dai post-keynesiani, ma di renderlo più accettabile agli attuali interessi delle aristocrazie finanziarie.
Anche i dirigenti del Movimento Cinque Stelle, un partito che vuole rappresentare la protesta contro il sistema politico attuale, hanno fatto propri, più o meno consapevolmente, i piani neoliberisti delle élite dominanti. Casaleggio ha dichiarato non molto tempo fa che vorrebbe ridurre la spesa pubblica di ben 200 miliardi di euro. E del resto che cosa rappresenta la proposta del reddito di cittadinanza, se non la chiara applicazione della tattica hayekiana? Fu proprio Friedrich Von Hayek, uno dei padri del neoliberismo, nonché feroce oppositore di Keynes, a introdurre un'idea molto simile. L'economista austriaco, infatti, ipotizzava una qualche forma di aiuto per i più poveri al solo scopo di evitare una rivolta contro le élite. Ed è precisamente questo l'effetto che avrebbe l'introduzione in Italia del reddito di cittadinanza, quello di acquietare un poco il malcontento popolare, ma senza risolvere la crisi economica, ma anzi aggravandola, facendo dei lavoratori le vittime di un ricatto che gli imporrebbe di accettare qualsiasi condizione di sfruttamento pur di non perdere i sussidi. E la riforma Hartz in Germania lo ha dimostrato. Una carità di stato, ma funzionale, ovviamente, ai piani del Capitale. A nulla vale l'obiezione di semplice buon senso, che nel momento in cui si riconosce un reddito a degli inoccupati tanto varrebbe farli lavorare per lo Stato. Il neoliberismo ha vinto anche laddove risulta stupido.
Stiamo assistendo a un totale svuotamento di significato del lessico politico ed economico nel dibattito pubblico. Anche il capo di un partito che ha da sempre applicato le politiche neoclassiche più ortodosse può richiamarsi a una scuola che è l'esatta antitesi di queste politiche. Sembra la conferma della feroce ironia della storia: l'austerità, l'adesione ai trattati e il perseguimento di riforme neoliberali sono state il cavallo di battaglia (e continuano a esserlo, malgrado le dichiarazioni di facciata) dei discendenti del più grande partito comunista occidentale di sempre, e adesso, quegli stessi si dichiarano keynesiani.
Una politica genuinamente ispirata alle teorie di Keynes suonerebbe in questo contesto come rivoluzionaria e forse perfino sovversiva, poiché equivarrebbe alla violazione sistematica di tutti i trattati europei (ma al rispetto pieno e alla attuazione della nostra Carta Costituzionale) e ad una dichiarazione di indipendenza rispetto alla dittatura economica di Bruxelles. Ma il sostantivo politico si riduce a mera tecnica di comunicazione rispetto alle masse. Serve per compattare la propria base, alludendo a differenze di programmi inesistenti.
Così ci si può chiamare democratici, mentre si minano le istituzioni nazionali per delegare i poteri degli stati a un'autorità dispotica sovranazionale, come ci si può dire socialisti, notava Marcuse già nel lontano 1969, e difendere il capitalismo.
Ma avendo ripudiato Marx, il proletariato e il socialismo (anche nella sua forma depurata da tutti gli elementi anticapitalistici) neutralizzato anche lo spauracchio Berlusconi (diventato ormai uno dei sostenitori del governo degli ex-comunisti che un tempo accusava) al partito democratico restava ben poco della vecchia simbologia in cui rimestare per aggregare la propria base. Il richiamo a Keynes sembra la riproposizione della tattica dei laburisti inglesi. Come questi ultimi continuano a proclamarsi socialisti e pro-labour, ma rappresentando di fatto i veri assassini del socialismo e gli oppressori dei lavoratori, i “democratici” italiani hanno rispolverato Keynes proprio mentre lo combattono tenacemente.
Sembra sparito nel dibattito pubblico qualsiasi collegamento, anche vago, tra la parola e il suo significato, e il lessico politico si fa sempre più astratto (cfr. La parabola discendente della sinistra. Da Marx a Tsipras). Le ideologie, che tutti dichiarano morte, sopravvivono in realtà, opportunamente revisionate, come variegati stendardi dell'unico vero potere che non può mai essere messo in discussione: quello del Capitale transnazionale.


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1 commento:

  1. un levista pro lira?
    i miei complimenti
    quelli come te sono mosche bianche

    saluti

    lelamedispadaccinonero.blogspot.it

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