13 ago 2014

Il mito della flessibilità

Le recenti discussioni sull'articolo 18, o su quel che ne rimane, confermano quanto resista la diffusa opinione, presso i media e gli economisti mainstream, che il problema della disoccupazione vada risolto intervenendo sul piano delle protezioni dei lavoratori. Un eccesso di protezioni giuridiche e sindacali scoraggerebbero le aziende ad assumere, poiché queste non avrebbero la sicurezza di poter licenziare all'occorrenza; tutto questo creerebbe una situazione stagnante in cui le imprese non investono e l'economia è in recessione. Ma nonostante i dati e numerosi e comprovati studi scientifici dimostrino quanto questa mitologia sia sbagliata, essa sembra essere ancora radicata presso il ceto dirigente e la vulgata dei media ed è stata di fatto accettata persino dai sindacati.
Il livello di protezione non incide sul tasso di disoccupazione. Anzi, ridurre le tutele può addirittura rivelarsi controproducente (cfr. http://alzailpugno.it/index.php/en/interviste/17-intervista-al-prof-guglielmo-forges-davanzatiin quanto si è visto che la produttività può risentirne in modo apprezzabile. Non è certo l'eccesso di tutele, la causa della disoccupazione, che ormai ha raggiunto il livello record in Italia, sebbene quello delle tutele sia tra i più bassi al mondo (Fig. 1). In una situazione di crisi come quella attuale le imprese difficilmente saranno portate ad assumere, anche presupponendo una minimizzazione delle garanzie contrattuali. L'errore è quello comune di chi vede la questione sempre e solo dal lato dell'offerta. Secondo questa visione supply siders se c'è poco lavoro vuol dire che esiste qualche fattore esterno al sistema che impedisce alle aziende di investire; burocrazia, tasse, livelli salariali, tutele contrattuali, ecc. In realtà, come ci insegnano non solo la documentazione empirica ma anche il semplice buon senso, in un clima di sfiducia dei mercati e in una condizione recessiva dell'economia, le imprese non investono perché sanno che i consumi restano bassi, e del resto le banche non concedono finanziamenti. Il vero problema, invece, risiede nella domanda aggregata. È su quest'ultima che si dovrebbe innescare un circolo
Figura 1
virtuoso dell'economia e favorire l'occupazione. Ma questo significherebbe, ovviamente, dover usare la leva della spesa pubblica, e innalzare significativamente il deficit pubblico e, appare chiaro che, nell'era della
spending review e del patto di stabilità, ciò è considerato tabù. Così non resta che allinearsi al coro dei fantasiosi cantori del mercato flessibile – che si tratti della cosiddetta “flexicurity”, delle “tutele crescenti” o quant'altro produca la prolifica immaginazione di costoro, poco cambia – e invocare la liberalizzazione selvaggia dei contratti lavorativi, gettando ulteriore benzina sul fuoco. Infatti, in una situazione di deflazione, ridurre le garanzie, o quel poco che ne rimane, porterebbe, direttamente o indirettamente, a un ulteriore crollo dei salari, e questo non può che causare un ulteriore calo della domanda. Non c'è stato, invece, nessun beneficio per l'occupazione, come mostra il grafico (Fig. 2). L'introduzione di contratti di lavoro flessibili non ha apportato miglioramenti su questo piano. Nei primi anni dell'euro si è avuto un afflusso di capitali, a causa del tasso fisso della valuta che rassicurava le banche, Ma dallo scoppio della crisi, il livello dei senza impiego è cresciuto vertiginosamente e non si è più fermato (mentre in altri paesi fuori dall'eurozona si assistiva a un'inversione di tendenza) fino a raggiungere il 13% (ufficiale) attuale.
Il dato della disoccupazione, tirato fuori solo quando fa comodo a certi guru neoliberali, viene usato pretestuosamente, per avallare riforme (o sarebbe meglio dire controriforme) che nulla hanno a che vedere con essa. Il vero fine è soltanto il continuo attacco nei confronti del lavoro, organizzato secondo un piano stabilito dalle élite, e che si è concretizzato nel nostro paese a cominciare dagli anni '90, con la riforma Treu, la prima ad avere introdotto massicciamente la flessibilità in Italia.
Cerchiamo di analizzare le varie tappe di questo piano.

  1. Formare un ceto politico compiacente, che si assuma l'incarico di scardinare l'impianto legislativo a tutela del lavoro. Questo compito è quello che ha ricoperto in Italia il centrosinistra degli anni '90, abiurando la propria tradizione lavorista.
  2. Far prevalere presso i sindacati una linea non conflittuale e concertativa, che riduca la lotta e i conflitti e cerchi sempre l'accordo.
  3. Condurre una martellante campagna mediatica che decanti le presunti virtù salvifiche della flessibilità e dipinga a tinte fosche l'antico e superato “posto fisso”.
  4. Stabilire un tasso di cambio fisso della moneta, mettendo fuori mercato le merci delle industrie dei paesi mediterranei che in questo modo sono incentivate a disinvestire e a delocalizzare la produzione.

Figura 2
Questo piano ha comportato una progressiva erosione dei salari e una caduta dei consumi.
Ma il vero motivo per cui le élite capitaliste e i loro istrioni continuano a propugnare leggi sulla flessibilità non è il contrasto della disoccupazione, ma la guerra di classe condotta contro i lavoratori.
Come infatti ci insegna Marx, in una situazione di espansione della produzione capitalistica si ha una caduta tendenziale del saggio del profitto, per cui, i mercati si saturano, e non è più possibile assicurare gli stessi margini di profitto di un tempo. Così le imprese disinvestono, cercando di ridurre i salari, delocalizzando la produzione laddove trovano manodopera a bassissimo costo e licenziando. Soltanto un intervento della finanza pubblica potrebbe, keynesianamente, scongiurare una crisi, permettendo alle imprese di tollerare alti livelli occupazionali e assorbendo la manodopera in eccesso attraverso impieghi pubblici. Questa situazione, dunque, implicherebbe un crescente intervento dello Stato nell'economia (che è l'antitesi della concezione neoliberale) che potrebbe condurre anche a nazionalizzazioni di alcuni comparti produttivi. Ma, tutto ciò, capace di garantire il pieno impiego attraverso il sostegno pubblico all'occupazione, spaventerebbe le classi capitalistiche. Come faceva notare Kalecki, il capitalista è finanche disposto a rinunciare a una parte dei propri guadagni, pur di non dover fronteggiare una classe operaia forte e agguerrita. È infatti chiaro che, in un'ipotesi di piena occupazione, si moltiplicherebbe il potere contrattuale dei lavoratori e i capitalisti si troverebbero a fronteggiare una situazione sociale densa di scioperi e conflitti, con i salari in continua crescita.
Bisognava costringere i governi, invece, per rendere innocua la classe lavoratrice, a tagliare la spesa pubblica e a mantenere i deficit di bilancio a livelli minimi, e il metodo che è stato escogitato per questo fine è proprio l'unione monetaria con i trattati europei annessi. In questa situazione, che imbriglia gli Stati ossessionati dai propri bilanci, la flessibilità viene presentata come unico metodo per arginare la crisi, quando in realtà può soltanto aggravarla.



Immagine e grafici tratti da:

1 commento:

  1. Aiuto... riusciremo mai ad uscire da questa situazione?


    http://www.4minuti.it/news/editrice-europea-srl-disoccupazione-nuovo-record-storico-0078098.html

    RispondiElimina