30 set 2014

Economia e immigrazione

I paesi occidentali hanno una posizione molto ipocrita nei confronti degli extracomunitari, sia gli “immigrazionisti” che gli “anti-immigrazionisti”. Gli uni, infatti, diffondono una mistificante retorica del migrante in nome di un cosmopolitismo astratto e, di fondo, individualista, dimentico delle reali condizioni in cui queste persone sono costrette a vivere. Gli altri invece dimenticano i secoli di guerre, oppressione e colonialismo (tutt'ora in corso) che si è imposto al cosiddetto “Terzo Mondo”. Se molti paesi sono in una condizione di sottosviluppo la colpa è anche (soprattutto!) nostra (Italia compresa), che abbiamo imposto, militarmente o economicamente, gli interessi del nostro capitalismo su scala mondiale. Solo per questo gli “anti-immigrazionisti” dovrebbero avere un atteggiamento più tenero nei confronti degli immigrati.
Coloro che vogliono bloccare i flussi migratori sostengono che l'immigrazione avrebbe causato quello che viene chiamato dagli economisti “dumping salariale” cioè una corsa al ribasso dei salari nel paese di arrivo, poiché i nuovi arrivati si sarebbero accontentati di condizioni di lavoro nettamente inferiori. Un'altra tesi che viene solitamente avanzata da costoro è quella che gli extracomunitari toglierebbero posti di lavoro per gli italiani,
Entrambe queste tesi, come cercherò di dimostrare, sono errate.
Per capirlo, facciamo due diverse ipotesi di lavoro. Nella prima immaginiamo un'economia che va bene, con un alto tasso di occupazione, alti salari, crescita, ecc. Nella seconda ipotesi faremo invece il caso di un'economia che va male, quindi recessione, disoccupazione, bassi salari.



Immigrazione in un ciclo economico espansivo

Prendiamo il primo caso e immaginiamo vi affluisca una massa di manodopera esterna al sistema. Questa manodopera crea una domanda di beni e servizi. Quindi ci sarà un aumento (indipendente da fattori interni) della domanda aggregata. Siccome siamo in un'economia che va bene, vi sarà una crescita della domanda di lavoro da parte delle imprese a cui corrisponde la crescita della domanda di beni e servizi. Anche se le imprese copriranno la domanda in eccesso assumendo solo lavoratori immigrati, non si avrebbe nessun “furto” di lavoro. Perché quella accresciuta domanda di lavoro da parte delle imprese è dovuta a un'accresciuta domanda di beni e servizi che a sua volta deriva da un aumento demografico. Se non ci fosse stato quel “sovrappiù” di popolazione straniera che avesse prodotto un “sovrappiù” di domanda di beni e servizi, le imprese non avrebbero risposto con una maggiore richiesta di lavoro rispetto all'andamento ciclico del sistema. Di conseguenza, tanti occupati italiani c'erano prima e tanti occupati italiani ci sono ora (e altrettanti disoccupati). Anzi, nel caso in cui, invece, come più probabile, la domanda di lavoro da parte delle imprese dovuta all'aumento demografico fosse assorbita da lavoratori italiani, oltreché stranieri, questa situazione porterebbe a un aumento occupazionale dei lavoratori italiani rispetto all'andamento ciclico del sistema. Gli italiani dunque, in una situazione di crescita economica, beneficerebbero di un aumento occupazionale grazie all'immigrazione. Ma che effetto avranno i salari? Essi diminuiranno a seguito delle richieste più “esigue” della manodopera straniera? Abbiamo detto che siamo in un ciclo di crescita. Dunque i livelli salariali tendono ad aumentare con l'occupazione. Poiché abbiamo visto che i livelli occupazionali complessivi (di italiani più immigrati) non mutano a causa dell'immigrazione (anche se possono beneficiarne gli italiani) non si capisce perché dovrebbero mutare i livelli dei salari. Esiste, al contrario, una ragione politica, e una economica, perché essi debbano restare immutati rispetto all'immigrazione. Quella politica è che in un contesto di bassa (o nulla) disoccupazione il potere contrattuale dei lavoratori è alto. Quindi i salari tendono a essere alti. Di conseguenza, esisteranno vincoli contrattuali che inseriranno gli stessi immigrati in un meccanismo di tutele (sindacali o giuridiche) in modo che questi non potranno abbassare il costo del lavoro. Ma esiste anche una ragione economica. E cioè che in un tale contesto la domanda di lavoro è in eccesso rispetto all'offerta, perciò il prezzo del lavoro sarà alto. Poiché abbiamo visto che l'immigrazione non muta i livelli occupazionali, i salari degli immigrati non si abbasseranno, ma si manterranno allo stesso livello precedente il flusso migratorio.
Dunque, possiamo concludere, che in un'economia in crescita l'immigrazione non causa nessun danno e nessuno squilibrio né al livello dell'occupazione, né rispetto a quello dei salari. I lavoratori “autoctoni” non saranno danneggiati in alcun modo, ed anzi è probabile che se ne avvantaggino sul piano occupazionale.



Immigrazione in un ciclo economico recessivo

Ma cosa succede se, invece, l'economia non si trova in una fase di crescita, ma in una di stagnazione o recessione, con bassa occupazione e bassi salari, come è quella attuale?
Già in base al ragionamento fin qui svolto potremmo concludere che le tesi degli anti-immigrazionisti sono almeno parzialmente errate in ogni caso, poiché quest'ultimo stadio negativo dell'economia non può essere causato da flussi migratori. Abbiamo appena dimostrato, infatti, che l'immigrazione in una fase espansiva non può abbassare né i livelli occupazionali né i salari. Perciò, se da una fase espansiva, si passa a una recessiva, si dovranno cercare altre cause.
Ma, si potrà comunque pensare che l'immigrazione possa aggravare una situazione già compromessa dell'economia. Cosa avviene, occorre perciò domandarsi, se in una fase che già di per sé è recessiva, si introduce un flusso migratorio?
Proviamo ad analizzare i dati. La disoccupazione è alta e i salari in calo. L'eccesso di offerta di lavoro dovuto agli immigrati, dobbiamo chiederci, verrà si o no assorbito dalla domanda di lavoro delle imprese (come abbiamo visto avvenire in una fase di crescita)? In questo contesto recessivo le imprese tendono a non investire e quindi a non assumere. Quindi il maggiore afflusso demografico non sarebbe compensato dall'offerta di lavoro, e la disoccupazione complessiva (cioè di immigrati più italiani insieme è bene non dimenticarlo!) tenderà ad aumentare. Tuttavia, non si potrà dire che gli “autoctoni” abbiano perso il lavoro a causa degli immigrati. L'aumento della disoccupazione è soltanto dovuto a un incremento demografico, non ad un maggior numero assoluto di disoccupati italiani. La condizione di questi ultimi resterà immutata. Cosa accadrà ai salari? Si potrebbe pensare che aumentando la disoccupazione (dovuta all'afflusso demografico) essi si riducano. E senz'altro questa parrebbe una conseguenza plausibile perché il divario tra domanda e offerta di lavoro si allargherebbe e il prezzo del lavoro scenderebbe. Inoltre bisogna considerare un fattore. L'immigrato, che proviene da un contesto socio-economico diverso, può darsi che richieda un differente trattamento salariale. E quindi le imprese potrebbero, dato il ciclo a bassi investimenti, decidere di licenziare lavoratori italiani (più costosi) e assumere lavoratori extracomunitari per ridurre le spese. E anche questo sembrerebbe plausibile. Dunque, dovremmo concluderne che gli anti-immigrazionisti hanno in parte ragione, perché – seppure i flussi migratori non possono causare di per sé recessione – in una fase già recessiva possano aggravare la situazione?
In realtà si rischia di fraintendere la questione se non si individua il contesto globale della recessione, qual è quello attuale. Questo che abbiamo ipotizzato accadrebbe in quello che viene chiamato un “sistema chiuso” e sostanzialmente omogeneo. Ma cosa accade in sistemi aperti non omogenei, cioè dove si hanno diversi livelli di reddito, di occupazione e di crescita economica? Cosa accade cioè, se invece di limitarci a un unica nazione, consideriamo un intero continente, o addirittura l'intera popolazione mondiale? Accade che le condizioni di una data area condizionano quelle di un'altra. È quella che viene chiamata “globalizzazione”. Ogni azienda si trova a concorrere con quella all'altro capo del pianeta, per questo, se i salari della prima saranno più bassi della seconda, anche quest'ultima sarà costretta a ridurli, altrimenti viene tagliata fuori dal mercato. Stessa cosa per l'occupazione. Se i livelli delle retribuzioni sono più bassi in un paese diverso da quello di origine, un'azienda vi si potrà spostare, rilocalizzando comparti produttivi. In sostanza l'effetto è lo stesso che si avrebbe dall'introduzione di lavoratori stranieri in un sistema chiuso durante un ciclo recessivo. Con una fondamentale differenza: che questa condizione è permanente, perché permangono sempre forti squilibri tra le diverse aree del pianeta. Di conseguenza, anche se sparissero tutti gli immigrati, in questo contesto, le aziende non assumerebbero lavoratori italiani, ma procederebbero molto più realisticamente a delocalizzare la produzione. Ma anche qualora un'azienda decidesse di non spostarsi, e di assumere forza lavoro straniera, si troverebbe comunque a dover competere con altre aziende che possono reperire forza lavoro a un costo ancora più basso perché, come dicevamo, si tratta di aree non omogenee. Avranno anche un vantaggio decisivo: che mentre restando nel proprio paese la manodopera a basso costo è limitata dall'entità dei flussi migratori, spostandosi essa è illimitata, e questo ne ridurrà ulteriormente il costo. Perciò, in questo contesto “globalizzato”, anche in una situazione recessiva gli effetti dell'immigrazione sull'economia e sull'occupazione sono nulli, perché la competizione è comunque su scala internazionale. Siamo già in grado di capire, dunque, che gli effetti destabilizzanti non sono causati dall'afflusso di forza lavoro straniera in un dato paese, ma dall'internazionalizzazione della produzione e degli scambi.
Qualsiasi intervento che volesse limitare i flussi migratori sarebbe perciò inutile sul piano economico. Sembra, altresì, che l'attenzione posta sulla questione migratoria, distragga dal vero problema, ovvero, appunto, la “globalizzazione” dovuta alla liberalizzazione totale dei mercati, e a normative sovranazionali penalizzanti per il lavoro; come, solo per citarne una, la Direttiva Bolkenstein, che autorizza un'azienda straniera nel campo dei servizi a mantenere le regole contrattuali del paese di origine.
Solo, dunque, un intervento da parte dello stato, teso a ripristinare la propria autorità sul territorio in ambito economico, potrebbe porre un freno a una situazione che pare incontrollabile.
Si dovrebbe procedere su due piani: da una parte quello legislativo, vincolando le aziende straniere alle normative contrattuali del territorio in cui si trova. Dall'altra su quello economico, sostenendo, con una politica fiscale espansiva, la domanda interna, in modo da permettere alle aziende di poter trovare sbocco alla propria produzione entro i confini nazionali, senza l'ossessione delle esportazioni. Questo, e non il controllo delle dogane, fermerebbe la peggiore forma di immigrazione: quella degli squilibri esterni.
Inoltre, il sostegno della domanda per mezzo di una fiscalità espansiva, provocherebbe la fine della recessione, perché la domanda interna tornerebbe a crescere e si avvierebbe una nuovo ciclo positivo dell'economia. Nel quale, come si è visto, l'immigrazione non causa alcun problema.



Fondi per lo sviluppo o immigrazione?

Gli anti-immigrazionisti sostengono che invece di permettere l'arrivo di extracomunitari bisognerebbe sostenere lo sviluppo dei paesi dai quali provengono, in modo da creare le condizioni perché non siano più costretti a emigrare.
Tuttavia questa prospettiva appare di difficile applicazione. I paesi industrializzati destinano percentuali ridicole del loro PIL alle aree sottosviluppate e i politici, che devono rispondere ai cittadini che li votano, non hanno alcun interesse ad aumentarle in maniera significativa. Non è un caso che anche i politici anti-immigrazionisti che vanno predicando questa tesi non abbiano fatto nulla di concreto perché ciò avvenisse. Se destinassimo percentuali importanti del nostro PIL allo sviluppo (2-3% e anche più) è probabile che ci sarebbe una levata di scudi da parte di quegli stessi che ora lo sostengono, denunciando un presunto “spreco di soldi pubblici”.
Ma anche se si riuscisse a destinare una parte significativa della nostra ricchezza a questo fine ciò potrebbe rivelarsi controproducente, perché potrebbe rendere le economie dei paesi sottosviluppati ancora più dipendenti dalle nostre, avallando un neo-colonialismo che non ha mai portato vantaggi.
Si potrebbe pensare che per aiutare i paesi dei migranti si potrebbero istituire accordi per elevare le tutele del lavoro e i livelli salariali. Ma non si capisce in che modo questo dovrebbe avvenire. Come si fa a imporre a un paese straniero delle normative? Appare difficile pensarlo.
Per capire come aiutare le nazioni sottosviluppate bisogna comprendere quali sono le cause del loro sottosviluppo. Senza addentrarci in un complesso dibattito, diciamo solo che ciò che ha impedito un progresso industriale, economico e sociale in questi paesi è stato proprio l'intervento dell'Occidente nella loro economia e nella loro politica. Si sono imposte a queste nazioni liberalizzazioni selvagge dei loro mercati per l'interesse delle nostre multinazionali, che hanno distrutto le produzioni locali. Inoltre ogni qual volta che il ceto politico dirigente locale cercava di emanciparsi e di realizzare politiche pubbliche espansive i governi occidentali sono intervenuti a impedirglielo, finanziando guerre e colpi di stato. L'idea degli “aiuti” allo sviluppo più che un'occasione di crescita per questi paesi appaiono più come un modo per “lavarsi la coscienza” degli occidentali che hanno creato la miseria di coloro che ora pretendono aiutare. L'unico modo per “aiutarli a casa loro” è quello di smettere di esercitare pressioni politiche sui loro governi, costringere le nostre multinazionali a non finanziare conflitti locali, e istituire accordi internazionali per la protezione (invece che la liberalizzazione) dei mercati di queste aree. I fondi per lo sviluppo sono la versione “dal volto umano” del colonialismo. Pensare che da soli questi paesi non siano in grado di risollevarsi. Lo sarebbero, se noi li lasciassimo in pace rispettando il principio di autodeterminazione.
Ma quello che più ci preme in questa sede è capire se l'immigrazione possa essere o meno vantaggiosa per i paesi di origine.
Innanzitutto bisogna considerare la morfologia del territorio urbano delle aree considerate. Questo è carente di attività produttive, soprattutto industriali, e presenta una rete infrastrutturale insufficiente. In queste condizioni l'unico modo per creare un ciclo economico espansivo è l'impiego di ingenti capitali pubblici, perché i privati non investirebbero mai in settori ad alto rischio. Spesso i governi non sono in condizione di farlo, e perché ostaggio delle multinazionali straniere, e perché i conflitti continui non rendono possibile lo sviluppo, e perché patiscono una dipendenza monetaria (con una valuta a tasso fisso rispetto a un'altra valuta straniera) e non sono liberi di attuare politiche economiche espansive, e per ignoranza.
Ad aggravare la situazione è la condizione demografica. Per un paese in crescita costante la sovrappopolazione non rappresenta un grosso problema (o al più un problema temporaneo) perché
la popolazione in eccesso sarà destinata ad essere assorbita dall'incremento produttivo. Ma per un territorio con gravi carenze infrastrutturali e un apparato produttivo ai minimi termini non è così. La sovrappopolazione rappresenta in questo caso un serio problema.
Ma veniamo ora al punto che ci interessa. Quando una parte della popolazione in eccesso di questi paesi emigra senz'altro sgrava la restante di un peso. Perché crea le condizioni per un miglior rapporto popolazione/risorse. Dato che queste ultime restano più o meno costanti, o non aumentano almeno quanto la popolazione, una decrescita demografica può senz'altro alleviare gli effetti della deficienza produttiva. Essa favorisce una migliore allocazione delle risorse, permettendo una maggiore quantità di beni e servizi disponibili per abitante. Ciò non può che favorire anche gli scambi, perché i mercati saranno alleggeriti dall'eccesso di domanda e i prezzi scenderanno.
Ma esiste un altro effetto benefico sui paesi di origine dell'immigrazione. I migranti mandano parte dei loro risparmi, maturati nel paese in cui lavorano, ai propri familiari in patria. Questi ultimi si trovano così disponibilità di moneta forte in un'economia debole. Questa potrà permettere una crescita della domanda e degli investimenti. Ma non solo. Gli emigrati, dopo un certo numero di anni, spesso ritornano in patria con il denaro accumulato, e lo impiegano nella creazione di attività produttive e di occupazione, oltre che di domanda sui mercati. In altre parole l'immigrazione ha sui paesi di origine lo stesso effetto che potrebbe avere una politica fiscale espansiva. Essa, più di tante “beneficenze”, è un valido sostegno allo sviluppo.
Ma quale effetto ha invece sulle nazioni di approdo? Abbiamo visto che essa non crea svantaggi, almeno in presenza di una adeguata politica fiscale. Ma esistono dei benefici?
Quello che spesso ci si dimentica di considerare quando si tratta il tema dell'immigrazione è la questione delle pensioni che sta diventando un serio problema per i paesi industrializzati. In essi, la percentuale di popolazione produttiva tende a decrescere. Ciò è dovuto a due fattori: innanzitutto l'innalzamento della speranza di vita, grazie al benessere e alle cure mediche. A questo prolungamento della vita però corrisponde una riduzione della natalità (per ragioni che non stiamo qui a discutere, ma lo prendiamo come un dato empirico assodato). Dunque la popolazione non attiva (cioè i pensionati) è in aumento rispetto a quella attiva (chi lavora). I governi spesso rispondono a questo problema allungando l'età lavorativa, ma questo non fa che spostare in avanti il problema (se la natalità continua a decrescere e l'età a prolungarsi) o aumentando le ore lavorate degli occupati. Questo, ovviamente, incide sulla qualità della vita di questi ultimi. Bisognerebbe, piuttosto, promuovere politiche di riduzione della disoccupazione. Ma in che modo l'immigrazione si inserisce in questo contesto? Gli stranieri giungono nelle nostre città per trovare lavoro. Essi rappresentano una fascia di età produttiva, generalmente tra i 25 e i 35 anni. Dunque, il loro ingresso riequilibra il rapporto popolazione attiva/pensionati. In altre parole, i paesi industrializzati generalmente soffrono del problema opposto di quelli sottosviluppati, ovvero tendono alla sottopopolazione. L'immigrazione non fa che “travasare” l'eccesso di popolazione da aree più affollate ad aree meno affollate. Nei paesi di origine questo comporta un migliore allocazione delle risorse rispetto alla demografia del territorio. Nei paesi di approdo alleggerisce il peso della popolazione non attiva sulla parte produttiva. Dunque, in entrambi i casi, riequilibra il rapporto tra popolazione e beni e servizi prodotti.



Squilibri temporanei

Bisogna riconoscere che, anche in una situazione di crescita economica, un flusso migratorio improvviso può causare scompensi temporanei, prima che il sistema si riassesti.
Questo perché esiste un intervallo tra l'ingresso degli extracomunitari e il momento in cui essi troveranno un impiego. Nel frattempo, subendo la disoccupazione un momentaneo, anche se leggero, incremento, questo potrebbe (in caso di un significativo incremento del flusso demografico) causare una certa (più o meno percettibile) decrescita delle retribuzioni e dell'occupazione degli “autoctoni” (o un rallentamento della loro crescita). A questo problema, però, i governi possono ovviare facilmente incrementando la spesa pubblica, o riducendo le tasse, in modo da compensare questo potenziale squilibrio temporaneo destinato in ogni caso a venir riassorbito dal ciclo espansivo dell'economia.



Conclusioni

Abbiamo compreso che l'immigrazione non può causare danni economici alla società che la riceve se questa adotta politiche espansive. Anche in un contesto di politiche deflattive pro-cicliche, ma in compresenza di un'apertura dei mercati (ovvero la situazione attuale) l'immigrazione non avrà effetti, ma a causare grossi problemi sarà l'internazionalizzazione degli scambi e della produzione che provocherà disoccupazione e dumping salariale. L'unico problema si può presentare se le politiche deflattive avvengono in un sistema chiuso, cioè con mercati non internazionalizzati. In questo caso l'immigrazione corrisponderebbe a una loro parziale liberalizzazione.
A entrambi i problemi (concorrenza estera in un sistema aperto, e immigrazione in un sistema chiuso) si può porre rimedio con l'espansione fiscale, incrementando la spesa pubblica e riducendo le tasse e invertendo dunque il ciclo economico. Da una parte, infatti, stimolando la domanda interna le imprese non avranno la “spada di Damocle” della concorrenza estera, perché la loro produzione troverà sbocco sui mercati nazionali, con evidenti vantaggi in termini di occupazione e salari. Questo effetto può essere ancor più marcato con una legislazione che, nel caso servisse, proteggesse i mercati interni.
Dall'altra, l'eccesso demografico può essere assorbito da politiche pubbliche che incentivino l'impiego e la riduzione della disoccupazione.
Con adeguate politiche fiscali, perciò, l'immigrazione non provoca effetti negativi, se non leggermente in un periodo di tempo limitato, ma, anzi, può apportare benefici, sia al paese di provenienza che in quello di approdo. Nei primi riduce la sovrappopolazione e permette di ovviare all'insufficiente circolazione monetaria e alla scarsità di capitali. Nei secondi, invece, allevia la sottopopolazione, sgravando in parte le fasce produttive del peso del sostentamento della popolazione non più attiva.
Non esiste, dunque, una questione immigrazione da un punto di vista economico, in presenza di adeguate politiche pubbliche. Il problema si pone solo laddove si parte dal presupposto, errato, che il governo non possa e non debba intervenire sul ciclo economico. È vero l'opposto, p u ò e d e v e farlo. Ma ha bisogno, ovviamente, del pieno controllo sulla moneta e della Banca Centrale, per attuare i necessari interventi fiscali. Certo, un cultura di tipo neoliberale non aiuta. Non aiuta nemmeno dotarsi di una moneta unica, affidata a una Banca sovranazionale e sovrastatale, come hanno malauguratamente scelto di fare i paesi dell'eurozona. Ma in questo caso, i guai sono ben altri che quelli potenziali dell'immigrazione. Il primo passo sarebbe, quindi, quello di recuperare la piena sovranità economica. Con quest'ultima, infatti, non esiste problema economico non risolvibile per i governi.
La questione si può porre, piuttosto, su un piano socio-culturale. Un'immigrazione troppo rapida e improvvisa può creare tensioni tra gli autoctoni e nuovi arrivati. Ma occorre intervenire nel controllo dei flussi per regolarne la velocità e non, come ci si illude spesso di fare, con una legislazione restrittiva o addirittura una chiusura delle frontiere. Questa non può che provocare sacche di illegalità perché non potendo accedere legalmente si cercherà di farlo illegalmente e offrendo inoltre alla criminalità organizzata (straniera o locale) ampie opportunità di profitto, speculando sulla disperazione dei migranti. In Italia ciò è provocato in particolare da una legge che non permette (ufficialmente) ai migranti di entrare nel nostro territorio senza avere già un contratto di lavoro. Ipocritamente, perché è evidente che senza prima arrivare nel nostro paese gli extracomunitari hanno probabilità pressoché vicine allo zero di trovarvi un impiego. Allora l'unico modo sono i viaggi clandestini, gestiti da criminali senza scrupoli.
Legalizzare l'immigrazione in cerca di impiego, riconoscendo, ad esempio, un periodo di tempo per trovarlo sottrarrebbe il controllo delle tratte alle organizzazioni criminali. Lo stato, inoltre, può occuparsi di impiegare direttamente in aziende pubbliche quella parte di disoccupati (italiani o stranieri che siano) che non vengano assunti da imprese private.
Altrettanto importante è abolire quei lager istituzionalizzati chiamati centri di identificazione, dove gli immigrati attendono in condizioni inumane per un tempo illimitato. Essi non rappresentano soltanto una violazione della dignità della persona, ma sono anche un danno economico perché costringono all'inattività delle persone che potrebbero invece lavorare.


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3 commenti:

  1. Tutto ineccepibile.
    Ma la "grande verità" l'hai detta nel commento: recuperare Marx e Keynes e far capire che sono complementari. O almeno possono esserlo.
    Ma come fare? Mmt.info e gli altri mmters latitano, barnard fa rizzare i capelli a troppi, bagnai è per un'economia basata sull'export, il m5s è un pollaio, i comunisti dicono che siamo per il capitale e la borghesia, i liberisti dicono che siamo comunisti, gli anarchici non li smuovi manco con le cannonate ecc. ecc.
    Altri?

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    1. A mio avviso qualche spiraglio c'è, in ambito di teorie macroeconomiche. I circuitisti cercano di fare proprio questo, e anche la MMT in fondo non è troppo lontana. Quello che manca, dal mio punto di vista, è una prospettiva politico-filosofica. Ci mancano i filosofi.

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  2. Le migrazioni sono protagoniste della nostra era. Immensi e fertili territori perdono demografia, mentre bande di violenti imperversano depredando chi rimane. Quale risorsa collettiva può nelle migrazioni? Quale per i singoli? Il "lavoro minorile" e i “bambini soldato” sono fenomeni indotti dall’abbandono territoriale degli adulti. Perché la filantropia occidentale tollera la fuga dalle responsabilità civili, quando avvengono tra i “poveri”? Perché "amare il nemico" si rivela il fallimento più eclatante del cristianesimo? I progetti economici possono riuscire dove le demografie sono costantemente instabili? Interrogativi che cercano risposte in un pianeta dove le negligenze umane guadagnano ineluttabilmente la punizione.
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