28 gen 2015

Le ragioni del fallimento storico della sinistra italiana*

Ad oggi, lo stato della sinistra in Italia è a dir poco drammatico. La fine del Democratici di Sinistra e la loro confluenza nel Partito Democratico, è stato soltanto il Requiem di un soggetto politico la cui disfatta ha origine molti anni prima. Dalla liquidazione del P.C.I., le due anime rimaste, P.D.S., appunto, e Rifondazione Comunista, non hanno saputo tener viva la fiamma ed entrambi hanno semplicemente prolungato di qualche anno il definitivo disfacimento della sinistra.
Il Partito Democratico, sebbene la retorica cronachistica si ostini a iscriverlo in un'area di “centrosinistra” ha palesemente rotto qualsiasi legame finanche col più cauto progressismo ed è ormai a tutti gli effetti un partito liberale e liberista.
Quel che rimane della cosiddetta “sinistra radicale” è completamente isolato, sia dalle istituzioni che dalla cultura e dalla società. Sinistra Ecologia e Libertà, sebbene possa contare su uno sparuto gruppo di parlamentari, non sembra sia in grado di incidere né sugli equilibri politici né su un miglioramento più generale della società.
Ciò che è venuto a mancare è, innanzitutto, un solido e coerente impianto teorico che formi una linea politica chiara ed efficace. Basti guardare la formazione vendoliana, la più numerosa della sinistra ormai in via di estinzione. Rigettato Marx e il marxismo, ci si ispira a una fumosa “etica dei diritti”. Scompare qualsiasi critica strutturata del capitalismo e subentrano generiche istanze emancipazioniste, volte alla tutela delle minoranze (gli omosessuali, gli immigrati, ecc.) ma in un ottica del tutto “sistemica” che non mette minimamente in discussione i rapporti di classe, pretendendo di realizzare le proprie istanze all'interno della struttura sociale data. È assente una visione olistica capace di inserire le singole rivendicazioni in una più ampia lotta che tenti di rovesciare o quanto meno modificare l'organizzazione di classe della società, prerogativa di tutte le sinistre. Ogni determinata aspirazione emancipativa è considerata in modo astratto e isolato, senza che possa venire inclusa in una più ampia e complessa istanza collettiva. A dispetto del nome, è legittimo domandarsi, che cos'è che rende lecito iscrivere il partito di S.E.L. nell'orizzonte storico della sinistra italiana? Domanda alla quale nessuno finora ha saputo dare risposta.
Domina ovunque, ormai, anche tra le macerie della sinistra, l'ideologia liberale, fosse anche, nel migliore dei casi, quella di un liberalismo progressivo. Anche questa circostanza appare incongruente con quella che è la storia della sinistra italiana ed europea, che si è sempre ritrovata in un'area socialista, riformista o “massimalista” che fosse.
Con simili presupposti teorici, che per usare un eufemismo potremmo definire avventuristici, con una simile incapacità di interpretare l'epoca attuale e di formulare una precisa proposta programmatica, non c'è da stupirsi che la sinistra sia ridotta a nulla di più che a una nicchia.
Ma per capire come si è potuti arrivare a questo punto bisogna andare a ritroso negli anni e comprendere cosa sia successo a quello che è stato, e che rimane tuttora, il più grande partito che la sinistra italiana abbia mai avuto. Cioè il P.C.I.
I primi segni di cedimento teorico e culturale, possono essere rintracciati nel corso della metà degli anni '70. In questo periodo osserviamo alcuni “germi” delle ideologie conservatrici (in particolare quella neoliberale) infiltrarsi tra le fila del Partito Comunista Italiano.
Questo processo di progressiva infiltrazione avviene quasi contemporaneamente in due ambiti: quello, per così dire, interno, socio-economico, e quello esterno, del posizionamento nella politica internazionale. Per entrambi questi ambiti c'è da segnarsi una data cruciale: 1976.
Per quanto riguarda il primo punto, si assiste, in importanti settori del P.C.I., a un cedimento della linea teorica marxiana in campo economico. Sostanzialmente viene accolta da molti esponenti una tesi di tipo marginalista, avanzata da Modigliani, che si andava affermando negli anni della cosiddetta stagflazione (ovvero bassa crescita unita a inflazione) secondo cui per favorire il progresso economico bisognava che i lavoratori accettassero una riduzione dei loro salari; secondo i suoi fautori questo avrebbe fatto crescere l'occupazione e ridotto l'inflazione. Contro questa proposta c'era chi, come l'economista Augusto Graziani, considerava i salari come una variabile delle lotte di classe. Secondo Graziani l'aumento dei salari tra la popolazione occupata avrebbe avuto l'effetto di produrre un aumento dei consumi e di ridurre la disoccupazione. Tra le file dei cosiddetti “miglioristi” quest'ultima tesi non venne accettata e venne accolta l'idea che una riduzione dei salari fosse necessaria.
Ma come è possibile, viene spontaneo chiedersi, che un dirigente di un partito comunista possa accettare un simile punto di vista palesemente conservatore e neoliberale? Per capirlo bisogna considerare quello che era l'approccio del marxismo italiano all'analisi macroeconomica. In esso era presente sovente un rigetto di Keynes e degli strumenti critici offerti da quest'ultimo. Anziché cercare di compendiare l'opera dell'economista inglese e di cercare un ponte con Marx (come avevano tentato di fare Sraffa e lo stesso Graziani) i comunisti spesso si limitavano a rigettare in toto gli approdi keynesiani. In questo modo, si trovavano non di rado nella posizione di dover far proprie tesi di impronta neoliberale. Si ricordi, a questo proposito, la posizione di Piercarlo Padoan, attuale Ministro dell'Economia, che negli anni '70 scriveva su Critica Marxista, il quale sembrava afflitto dal terrore tutto liberista dell'inflazione.
La diffidenza (o la sottovalutazione) della sinistra italiana nei confronti di Keynes è costata la mancata comprensione della realtà capitalistica di quegli anni e degli strumenti per affrontarla. Una teoria economica che mira a importanti investimenti pubblici, alla crescita dei redditi da lavoro, alla piena occupazione, alla riduzione dell'orario lavorativo, poteva e doveva essere presa in considerazione con la massima serietà da parte dei comunisti italiani.
Questo fu soltanto il primo passo del processo di arretramento del marxismo e dell'affermazione dell'egemonia neoliberale. Pochi anni dopo maturerà la sconfitta sulla questione della “scala mobile”, la moderazione salariale imposta dalla Banca d'Italia e, infine, la capitolazione con la “flessibilità” dei contratti di lavoro.
Quelli che furono gli eredi del P.C.I.- P.D.S.- D.S. e Rifondazione, non seppero fare di meglio. I primi si iscrissero a pieno titolo al club dei liberisti dell'ultim'ora, i secondi, pur criticando le politiche antisalariali, di fatto finirono per accettarne numerosi presupposti. Come ad esempio la rinuncia a un fisco espansivo e a un ampliamento degli investimenti statali. Ancora una volta, il grande assente era Keynes e Marx era sempre più defilato.
Ma veniamo al secondo punto, ovvero il posizionamento del P.C.I. nella politica internazionale. Nel '76, abiurando ufficialmente alla fino ad allora tradizionale (seppur non priva di tensioni) adesione alla linea sovietica, Berlinguer pose il suo partito in aperta rotta col P.C.U.S. e appoggiò la NATO. Questo fu un avvenimento cruciale, perché segnò il passaggio dei comunisti italiani dal sovietismo all'atlantismo. Quest'ultimo fu un carattere che avrebbe continuato a contraddistinguere la sinistra negli anni successivi, soprattutto in seguito al crollo dell'URSS e alla svolta della Bolognina.
Con la segreteria di Berlinguer i rapporti con il Cremlino sia erano fatti sempre più difficili. Sicuramente l'Unione Sovietica non vedeva di buon occhio una possibile partecipazione al governo del P.C.I., ma c'è anche da dire che all'interno di quest'ultimo erano già maturate posizioni filo-americane. I rapporti tra esponenti della corrente migliorista e la diplomazia americana sono noti e risalgono agli anni '60. Molto tempo dopo Henry Kissinger definirà Napolitano “il mio comunista preferito”.
Sicuramente c'era l'esigenza del P.C.I. di legittimarsi come partito di governo agli occhi degli americani per rendere possibile il compromesso storico. Sicuramente c'era il desiderio di emanciparsi dall'Unione Sovietica. Ma nell'ambiente comunista mancò la capacità di comprendere la necessità storica del blocco sovietico come garanzia di un assetto mondiale multipolare – come si sarebbe mostrato in modo tragico a seguito dei conflitti scatenati dal crollo del Muro di Berlino.
Il P.C.I. non seppe esprimere una critica indipendente all'U.R.S.S. coerente con una impostazione marxista, ma finì per adagiarsi sulla tradizionale condanna di stampo liberal-democratico. Berlinguer non seppe trovare nemmeno un'equidistanza tra i due blocchi, e il suo partito avrebbe presto finito per essere assorbito del tutto nel campo atlantista. L'“eurocomunismo” fu un progetto fumoso destinato presto a implodere su se stesso.
La storia successiva della sinistra sarà all'insegna dell'americanismo più intransigente. Questo è dovuto all'incapacità di individuare alleati diversi da quelli imposti dalla cultura neoliberista, gli Stati Uniti, per costruire una piattaforma internazionale di tipo antimperialista. La categoria dell'antimperialismo è completamente dimenticata, oggi, dalla sinistra, o da quel che ne rimane.
La svolta del '91, sancì ufficialmente quello che era ormai già evidente da alcuni anni: il passaggio del P.C.I.-P.D.S. al campo liberale e atlantista e il totale rigetto del marxismo. Quel che ne emerse non fu un partito socialdemocratico riformista: il “centrosinistra” nato negli anni '90 fu autore della più monumentale opera di privatizzazioni della storia non solo d'Italia, ma forse d'Europa, ai cui governi aderì il partito di Rifondazione.
Quest'ultimo è stato segnato dalla linea di Fausto Bertinotti, la quale cercava di destreggiarsi goffamente tra il tentativo di ricostruzione di una forza che potesse dirsi comunista e le improponibili alleanze nei governi di “centrosinistra”. Costanzo Preve definiva efficacemente Bertinotti un “dilettante culturale e un professionista della politica”. Come tale riuscì ad emarginare per molto tempo le correnti non favorevoli alla sua linea, ma ebbe una consapevolezza teorica improvvisata. Il pacifismo, la non violenza, la difesa delle minoranze, erano più delle trovate estemporanee e dei cedimenti al sentire comune dei tempi che conseguenze di una lucida struttura teorica. Sopratutto, il marxismo dichiarato mal si coniugava con una spregiudicata ed opportunistica pratica politica, che in nome di un antiberlusconismo di moda e fine a se stesso accettava improvvide alleanze. Rifondazione era contraddistinta ormai agli occhi di tutti dal velleitarismo e dalla inettitudine nell'incidere sulle dinamiche sociali.
Quel che è mancato nella sinistra italiana, praticamente dal Dopoguerra, fu l'ideazione di una teoria marxista originale coerente con le proprie premesse e adatta alla realtà italiana. La triade sacra del Partito Comunista Italiano, Marx, Lenin e Gramsci, da sola non bastava a fornire gli strumenti per interpretare le specifica situazione della Penisola quale fu quella successiva al conflitto bellico. In fondo tutti e tre questi pensatori vivevano e scrivevano in contesti molto diversi da quello in cui operava il P.C.I. togliattiano (e berlingueriano poi). Non avevano assistito al secondo conflitto mondiale, né avrebbero conosciuto quello che sarebbe stato l'assetto geopolitico scaturente da esso e la particolare situazione dell'Italia. Lo stesso Gramsci, che cercò di adattare il marxismo-leninismo alla specificità nazionale, si trovava a osservare una società proto-capitalistica, per larga parte molto arretrata. Quelle degli anni '50 e '60, invece, era profondamente mutata e diventata una potenza industriale. Né tanto meno gli equilibri geopolitici erano così netti e consolidati come dopo Yalta.
Togliatti si trovò a dirigere un partito comunista in un capitalismo compiuto, di un paese posto sotto l'influenza degli Stati Uniti nel contesto internazionale di una guerra fredda globale tra est e ovest. Uno scenario che Gramsci non avrebbe potuto prevedere.
Così, tra il marxismo leninista nella teoria, e una prassi realistica e gradualista per necessità si creò uno iato. Il quale poteva essere colmato solo da una originale lettura della società italiana del tempo, che non escludesse un progresso all'interno del capitalismo, pur mirando al suo superamento. Urgeva una raffinata analisi teorica, ma gli intellettuali comunisti non ebbero né la libertà, né l'intraprendenza per ripensare alle categorie marxiste, ostaggio com'erano della secca alternativa tra l'adesione acritica alla linea togliattiana e l'esclusione dai circuiti della cultura. Non riuscendo a sanare questa frattura tra teoria e prassi, tra il comunismo teorico e il riformismo pratico, accadde che fu quest'ultimo a prevalere venendo risucchiato dalla corrente di pensiero egemonica. Di conseguenza, la teoria neoliberale finì per sostituirsi del tutto al marxismo che rimaneva astratto e non dialettizzato e perciò inefficace. Quel che ne seguì fu il logico corollario. Ancora oggi la sinistra, dalle sue “riserve”, pare del tutto impreparata a una elaborazione teorica. Clamoroso è il fraintendimento, ad esempio, del ruolo dell'euro e dell'Unione Europea, strumenti del capitalismo finanziario per abbattere i salari e per trasferire ricchezza verso le élite e che la sinistra ha abbracciato fideisticamente sostituendoli all'internazionalismo proletario.

Pubblicato anche sull'intellettuale dissidente


Immagine tratta da:

Nessun commento:

Posta un commento