Il “Jobs Act” del governo Renzi è
solo l'ultimo atto di una strategia che da due decenni cerca di
“flessibilizzare” i contratti di lavoro. La riforma Treu negli
anni Novanta inaugurò in Italia una nuova politica sul lavoro.
Diversamente da quanto era avvenuto nel corso degli anni '70, non
solo non si cercava più di migliorare le forme di tutela, ma si
tentava persino di ridurle, quindi di rimuovere tutti gli impedimenti
legislativi e sindacali che il capitale incontrava. Sostanzialmente
la stessa tendenza proseguì nel corso dei governi successivi, tanto
quelli di centrosinistra, quanto quelli di centrodestra, per
arrivare, infine, a Renzi, passando per il governo “tecnico” di
Monti con la famosa riforma Fornero, l'anticamera del Jobs Act.
Secondo i fautori della flessibilità,
o della cosiddetta “flessicurezza” – parola che sembra presa
dalla neolingua orwelliana – l'allentamento delle protezioni
rendendo il mercato più dinamico sarebbe nell'interesse stesso dei
lavoratori. La realtà, come mostrano vent'anni di storia, è che la
flessibilità non giova né all'occupazione né ai salari, sebbene
una imponente campagna mediatica sia riuscita a convincere molti del
contrario.
Siamo quindi nel pieno di una nuova
epoca, un'epoca di restaurazione capitalistica e non più di
avanzamento operaio. Le lotte dei lavoratori incominciarono ad
arrancare già nel corso degli anni '80, e il capitale si
riorganizzava per sferrare il contrattacco decisivo. Ma ad essersi
rotto è il processo storico che aveva inaugurato un'era di migliorie
sociali.
Lo scopo della cosiddetta
“flessibilità” è quella che Marx chiamava “distruzione delle
forze produttive”. Secondo la teoria marxiana nel corso di una
crisi ciclica, infatti, i capitalisti hanno la necessità di
disinvestire nella produzione e quindi di licenziare, facendo
crescere la disoccupazione.
Alla vigilia della riforma Treu (ma già
prima in altri paesi, come nell'Inghilterra della Thatcher) si
profilava la fine di quella fase espansiva che aveva interessato le
economie occidentali dal Dopoguerra. Il capitale non poteva più
trovare importanti sbocchi sui mercati come qualche anno prima. Si
rendeva quindi urgente, per esso, disinvestire, ridurre i salari (già
negli anni '80 si cominciava a parlare di “moderazione salariale”,
con il pretesto della lotta all'inflazione) e infine licenziare. Ma
esisteva un problema: l'impianto legislativo italiano “pro-lavoro”
che era uno dei più avanzati al mondo. Ecco dunque che correvano in
soccorso delle oligarchie industriali e finanziarie quelle leggi
antioperaie che i governi e le maggioranze spacciavano per
socialmente vantaggiose.
Così si inaugurò tutta una
pubblicistica che tendeva a screditare le protezioni del lavoro, a
invocare la mobilità dei lavoratori come fattore che rompesse la
“monotonia” del posto fisso (come ancora pochi anni fa dichiarava
Mario Monti) a dividere i lavoratori, accusando quelli più
sindacalizzati di essere “privilegiati, a colpevolizzare i
sindacati, in particolare nei settori più radicali che non
accettavano la concertazione, e a presentare la cancellazione delle
tutele giuridiche del lavoro (e lo stesso spirito della Costituzione)
come “opportunità” per i lavoratori.
La flessibilità, in realtà, era
un'opportunità per le oligarchie. Queste potevano finalmente non
solo licenziare liberamente e disfarsi della manodopera in eccesso,
ma anche ridurre il costo del lavoro e garantirsi ampi margini di
profitto, tenendo basso il prezzo delle merci e strangolando in
questo modo le piccole imprese. L'alta disoccupazione, per di più, è
sempre una benedizione per il capitalista; essa assicura
quell'“esercito industriale di riserva” che mantiene i salari al
di sotto un certo livello impedendo il rafforzamento dei lavoratori
come classe e dei sindacati.
Il vero scopo della flessibilità
dunque, di cui il Jobs Act è solo l'ultimo atto, al di là dei
proclami, è quello non di ridurre, ma di aumentare la massa di
disoccupati o quanto meno mantenerla al di sopra di una certa soglia.
Tra le norme previste dal governo Renzi non vi è soltanto, infatti,
la cancellazione definitiva dell'ultimo scampolo dell'articolo 18
dello Statuto dei Lavoratori, che impedisce il reintegro nell'azienda
del lavoratore licenziato ingiustamente, ma anche l'abolizione del
posto fisso, con l'introduzione del cosiddetto contratto a tutele
crescenti e infine la parificazione tra contrattazione collettiva e
aziendale. Il lavoratore è dunque privato di qualsiasi sicurezza;
soggetto al ricatto dei mercati gli è sottratto di fatto anche lo
strumento sindacale per difendersi.
Non rimangono che i cosiddetti
“ammortizzatori sociali” per i lavoratori licenziati e i
disoccupati utili soltanto a sedare la rabbia sociale e a soffocare
in una “carità di stato” il malcontento generale.
*Pubblicato anche sull'Intellettuale dissidente
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