Nel 2014 per la prima volta il numero
di emigrati italiani ha superato quello di immigrati stranieri nel
nostro paese. Il fenomeno dell'emigrazione di massa non è certo una
novità assoluta per l'Italia; essa ha segnato l'industrializzazione
della Penisola fino agli anni '50. Con lo sviluppo economico degli
anni '60 e '70, la crescita del reddito nazionale, l'affermazione
come potenza industriale mondiale e l'acquisizione di tutele
giuridiche e sindacali per il lavoro, sembrava essere un fenomeno
definitivamente tramontato. Gli anni '90 invece vedevano l'inizio di
un altro fenomeno, pressoché inedito per il nostro paese, che
diventava terra di destinazione di immigrati stranieri, i quali
cominciavano ad approdare sulle nostre coste.
Il nuovo secolo ha visto invece
l'emigrazione ricomparire e il “saldo” (differenza tra “entranti”
della popolazione attiva, autoctoni o stranieri e “uscenti”),
alla metà di questo decennio, è ormai negativo. Certo,
l'emigrazione oggi assume forme diverse. Non si tratta più di fuga
di contadini che le industrie del Settentrione non erano in grado di
assorbire del tutto, e che per questo diventavano manovalanza delle
fabbriche oltreconfine, ma molto spesso si tratta di impiegati in
settori tecnici e dirigenziali, quadri e manager, oltre che
lavoratori saltuari delle classi sociali più basse.
Se le prime emigrazioni si devono
all'industrializzazione, all'abbandono delle terre e alla
disgregazione del mondo contadino, la nuova emigrazione è invece il
risultato del processo di de-industrializzazione,
internazionalizzazione, finanziarizzazione, privatizzazione e
deregolamentazione dei mercati. Questa nuova emigrazione va ricercata
in tre ordini di ragioni, uno ideologico-culturale, uno politico e un
altro “strutturale”. Partiamo da quest'ultimo.
L'emigrazione della prima fase è
l'effetto dell'irrompere del capitalismo industriale e si attenua e
poi “normalizza” (senza scomparire del tutto) con l'affermarsi
dell'industria fordista e la strutturazione di un apparato produttivo
nazionale. L'emigrazione del primo tipo è legata allo stadio
“solido” del capitalismo, ovvero quello fordista fondata sulla
concentrazione della manodopera. Le istituzioni delle società
agricole vengono “fuse” per forgiare una nuova fase solida.
L'emigrazione segna il passaggio a questa nuova fase del capitalismo,
in cui il lavoro perde il rapporto con la terra e vengono eliminati
tutti i residui pre-capitalistici. Per creare una società
industriale è necessario produrre un enorme spostamento della
manodopera, che dovrà abbandonare le campagne per concentrarsi nei
centri industriali. Soltanto quando la manodopera sradicata dalla
campagna e dalla vita rurale si legherà all'industria, sarà
concluso il processo di “fusione”. L'emigrazione, tuttavia,
prosegue anche nella fase solida, ma riguarda i lavoratori dei paesi
industrialmente più arretrati e delle colonie che si spostano verso
le nazioni industrializzate.
Naturalmente all'origine
dell'emigrazione c'è uno squilibrio tra diverse aree. Questo
squilibrio deve essere talmente grande da giustificare agli occhi
degli individui l'abbandono delle sicurezze rurali e lo sradicamento.
Uno squilibrio quale si è prodotto nella storia solo nell'epoca
capitalistica che è quella che ha visto i più imponenti spostamenti
di massa. Quando una società da arretrata diventa sviluppata, smette
di essere fonte di manodopera per paesi più avanzati e comincia
invece ad attrarne dall'esterno. Ciò è, in estrema sintesi, il
mutamento che ha interessato l'Italia tra gli anni '60 e '70. Lo
sviluppo del nostro paese però non è stato armonico. Il divario tra
nord e sud non ha mai permesso di superare del tutto processi di
emigrazione, ma è stato comunque possibile renderli “endogeni”,
spostarli dall'esterno all'interno, grazie allo sviluppo
dell'economia del Settentrione e ai sussidi statali per le imprese
(sia nella forma di parziali nazionalizzazioni, come le cosiddette
“partecipate”, sia come vere e proprie sovvenzioni) oltre alle
tutele giuridiche per il lavoro.
Con la nuova ondata di emigrazione,
invece, né le aziende del nord né le vecchie imprese pubbliche
(ormai privatizzate, frammentate, scorporate o in corso di
privatizzazione) riescono ad assorbire la manodopera in eccesso. Se
la fase precedente era fondata sulla deruralizzazione, quindi fusione
e risolidificazione, invece la forma più recente del fenomeno si
caratterizza come “liquefazione” della società; il capitale
ridimensiona, ristruttura, esternalizza, riduce gli investimenti,
“smonta” la fabbrica fordista e nel contempo si
internazionalizza, si deterritorializza. Non ricerca più la fissità
e la stabilità del lavoro, la certezza di trovarlo in un certo luogo
cui incatenarlo, non predilige i rapporti duraturi come un tempo,
bensì privilegia la volatilità dei lavoratori, la loro mobilità,
la smobilitazione della manodopera. In questa situazione, quindi, gli
individui sanno dove cominciano il loro percorso lavorativo ma non
dove lo finiscono, devono essere dinamici e viaggiare. Neanche i
paesi più sviluppati sono immuni a questa tendenza. Il capitale può
decidere in qualsiasi momento di dislocare altrove i propri
investimenti, senza nessun riguardo per le gerarchie che esso stesso
ha creato. Così l'emigrazione e il nomadismo non sono più fenomeni
esclusivi del sottosviluppo, ma diventano il carattere “genetico”
del lavoratore della società liquida, in ogni parte del mondo. È
sempre presente anche se “in potenza” in un dato frangente, ma
presto pronto a diventare “in atto”.
Il declino economico italiano, cui ha
contribuito il processo di liquefazione (che ha depresso
prevalentemente le nazioni più europee, abituate a una maggiore
presenza dello Stato nell'economia) ha scatenato forze sociali e
demografiche incontrollabili. Non si può prevedere quali saranno le
evoluzioni di questo processo tra venti o trent'anni. L'Italia, come
tutti i paesi dell'Europa mediterranea, assiste a una nuova “fuga”
dal proprio territorio, una fuga non dovuta al sottosviluppo,
all'insufficienza dei processi di ammodernamento, anzi, si è proprio
in presenza di una loro apoteosi, giacché “ammodernamento” oggi
non è centralizzazione industriale ma a-centramento
finanziario e liquefazione.
Per quanto riguarda il lato politico
della questione, cioè privatizzazione e deregolamentazione, esso non
è del tutto nuovo. Come spesso accade nel capitalismo fenomeni
simili assumono forme diverse che li rendono infine dissimili e a
volte anche opposti. Karl Polanyi ha descritto in modo esemplare come
le enclosures, le recinzione
dei terreni demaniali prima liberi per il pascolo, abbiano creato una
massa di vagabondi e diseredati. Ma la privatizzazione dell'epoca
solida è servita come temporanea fusione delle istituzioni arcaiche
per poi ricollocare il lavoro in una nuova dimensione che, nella sua
forma ultima e insuperata si è costituita nella fabbrica fordista.
La nuova
privatizzazione, invece, non sembra destinata a ricreare altre
strutture a un “livello superiore” di solidificazione, piuttosto
a de-strutturare. All'espropriazione dei terreni agricoli
corrisposero (ovviamente attraverso “corsi e ricorsi storici”,
conflitti e contraddizioni) parziali riappropriazioni delle fabbriche
da parte del lavoro e parziale statalizzazione dell'economia (nei
paesi socialisti essa invece fu totale). Il “lavoro liquido”
manca invece del tutto di presa sul sistema produttivo, anche perché
l'“essenza” del capitalismo contemporaneo non è la produzione ma
il consumo. Lo spostamento dei lavoratori non deve servire a
ricollocarli in altra sede, ma a tenerli costantemente in movimento;
quest'ultimo non ha direzioni univoche e non segue linee rette, né
tanto meno tende alla stasi.
Scomparendo
la fabbrica fordista (nello stesso tempo prigione e luogo di
emancipazione e presa di coscienza del lavoro) scomparendo le norme
che tutelano i lavoratori, questi ultimi non sono più legati a un
territorio, ma “liberi” di andarsene, di vagare per il mondo.
Daniel Cohen ha osservato che chi inizia a lavorare alla Microsoft
non sa dove concluderà la propria carriera, al contrario di chi
lavorava alla Ford che aveva la certezza di rimanerci a vita1.
Ovviamente si tratta di una libertà immaginaria, giacché non è una
scelta dei lavoratori, ma condizione necessaria per la loro
esistenza. A prescindere dalle migrazioni i mercati mettono in
competizione i lavoratori di tutto il mondo; venute meno le
protezioni politiche questi non possono perseguire un'emancipazione
attraverso istituzioni e apparati collettivi (la classe, il
sindacato, il partito, infine lo Stato) ma soltanto accettando la
competizione su scala globale e inseguendo la speranza di un successo
personale magari in terra straniera (anche se il termine “straniero”
rischia di divenire improprio, giacché le patrie “sbiadiscono”)
ovunque i mercati richiedano la loro particolare abilità, senza mai
disfare le valigie, senza attaccarsi a una casa di cui non si è
proprietari ma inquilini temporanei, senza stringere rapporti
affettivi troppo forti che sarebbe poi un problema sciogliere alla
partenza successiva. L'individuo che non si adegua, che sceglie il
radicamento, il suolo, la permanenza invece che la fuga, l'aria, la
mobilità, rischia di essere estromesso dal mercato.
Come
se non bastasse, qualora quest'ultimo non fosse di per sé
sufficientemente persuasivo, o per agevolare l'apprendimento
tempestivo dell'apolidismo, interviene anche una certa ideologia per
incentivare l'individuo attraverso piccole gratificazioni e
penalizzazioni sociali. Questa ideologia è il cosmopolitismo.
Il cosmopolitismo di oggi non è quello illuministico, astratto,
intellettualistico e di fatto del tutto irrealistico. Per la prima
volta diventa un fattore reale della storia, non una mera idea per
intellettuali borghesi. Le élite, in effetti, hanno acquisito da
lungo tempo un certo grado di cosmopolitismo. Tuttavia:
a) Le
vecchi élite erano cosmpolite solo a metà, anche quando volevano
apparire tali, dovendo necessariamente conservare un legame con il
territorio che dominavano, mentre le élite odierne sono
completamente
cosmpolite, non hanno una sede, non hanno patria, non hanno “regge”
o “castelli” da presidiare, né fabbriche da dirigere, ma
soltanto transazioni finanziarie e algoritmi matematici per i loro PC
e tablet.
b) Non
sono solo le élite a essere cosmpolite, ma anche i dominati, sia
pure a un grado inferiore. La differenza tra dominati e dominatori si
misura anche in base al grado di cosmopolitismo, cioè di capacità
di introiezione della assenza di legami territoriali; naturalmente
questo è l'elemento ideologico-culturale che da solo non è
sufficiente se non si accompagna a un elemento materiale,
ovvero l'effettiva disponibilità di mezzi che permettono la rapidità
negli spostamenti. Eppure i dominati assorbono l'ideologia cosmpolita
la quale smette di essere un'idea per salotti aristocratici e si
“democratizza”.
Il
capitale oggi può esercitare un dominio sulla società in virtù
della propria mobilità e rapidità. Questa rapidità (intesa non
solo come velocità fisica, ma anche di pensiero, umano o artificiale
che sia) è l'arma che gli ha permesso di trionfare tanto sul lavoro
quanto sulla politica. Il capitale finanziario globale si muove alla
velocità delle reti informatiche, esegue milioni di operazioni al
secondo, la politica, invece, si muove ancora a passo
d'uomo perché ha bisogno di
tempo. Il tempo dei discorsi e della dialettica, il tempo della
parola. La politica, anche quando pretende goffamente di
tecnicizzarsi è e rimarrà sempre costituzionalmente umana.
Il nuovo capitale si affida invece senza mediazione alla tecnica e
alle intelligenze artificiali.
Questa velocità,
dunque, lo distingue dalla massa, come dall'apparato burocratico, ma
nello stesso tempo esercita un'attrazione nei loro confronti,
esigendo uno sforzo di adeguamento a velocità via via più elevate.
Il divario, per quanto enorme, non può varcare un certo limite,
perché altrimenti viene meno il potere stesso. Le plebi sradicate
del nuovo millennio devono perciò viaggiare, farlo di più e più
velocemente. Così anche la politica, che non può più perdere tempo
con le carte costituzionali e col principio di sovranità popolare.
I
media diffondono l'ideologia cosmopolita promettendo un mondo di
delizie ai lavoratori-consumatori. Tutto il mondo è raggiungibile e
ovunque vi si può trovare qualcosa di familiare, eppure di
eccezionale, di noto
ma non legato alla routine. In qualsiasi zona del mondo si può
essere certi di trovare un McDonald's, di poter viaggiare in
metropolitana, di visitare giganteschi centri commerciali e di
potersi connettere a internet con un telefono ovunque capiti. Questa
ideologia insegna a sfruttare il momento senza preoccuparsi del
domani che non è solo incerto ma imprevedibile. L'individuo
cosmopolita deve viaggiare per godere delle meraviglie del mondo,
ovvero i templi del consumo e del divertimento. Deve assorbire una
cultura superficiale, mascherata da “vacanza-studio”, deve darsi
alla baldoria finché è in tempo, finché può (se può) perché poi
lo aspetta l'inferno della precarietà a vita, dell'instabilità,
dell'angoscia, dello smarrimento, della fuga e del nomadismo.
Il
nomadismo è la
condizione intrinseca del lavoro nel capitalismo liquido.
È sua condizione anche quando non si manifesta, quando il
l'individuo può assaporare un momento di apparente “stabilità”.
Il nomadismo è sempre latente, è il destino che può chiamare il
lavoratore in qualunque momento. Esso rimane uno scenario sempre
plausibile, esercitando, sia pure restando mera possibilità,
un influsso sulla vita
individuale, che anche quando non è nomade deve comportarsi come se
lo fosse.
1 Z.
Bauman, Modernità liquida, Laterza, Bari, 2016, p. 57
*Pubblicato anche sull'Intellettuale dissidente
Immagine tratta da: http://sociologicamente.it/terra-promessa/
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