Secondo
una ricerca australiana lavorare meno sarebbe più produttivo.
Confrontando un campione di persone che lavorano per 55 ore alla
settimana con chi ne lavora 25, questi ultimi hanno ottenuto
risultati migliori. Se ciò è vero, come questa e altre ricerche
dimostrano, ciò significa che esiste una parte del tempo di lavoro
durante il quale i lavoratori non producono niente. Più passa il
tempo più il rendimento decresce, diventando infine nullo. Ciò non
è naturalmente colpa dei lavoratori, perché si tratta di un
fenomeno fisiologico dovuto alla limitatezza dell’essere umano. Ma
se ciò è vero come mai, verrebbe allora da chiedersi, le aziende
non riducono l’orario di lavoro? Perché ridurre le ore lavorate
richiederebbe maggiori investimenti, e le imprese piccole
difficilmente riuscirebbero a ottenere i finanziamenti dalle banche
soprattutto in un periodo di crisi. Per le grandi aziende, invece, la
questione è più complessa.
Michal
Kalecki sosteneva che i capitalisti preferiscono rinunciare a una
parte di profitto nell’immediato pur di non rafforzare la classe
operaia. La riduzione dell’orario lavorativo (a parità di ore
lavorate, ovviamente, altrimenti sarebbe un semplice disinvestimento)
rafforzerebbe sicuramente i lavoratori, ecco perché difficilmente se
ne parla ed è il vero tabù delle controversie sindacali. Del resto,
come aveva capito Marx, per ottenere maggiore plusvalore il
capitalista tende ad aumentare il tempo di lavoro, non a ridurlo. Se
ci fosse un limite, quindi, sarebbe un problema serio per il
capitale, che non riuscirebbe a espandersi in questa direzione,
poiché è evidente che una possibile riduzione dei salari
(eventualmente al di sotto del livello di sussistenza, come avviene
spesso oggi) sarebbe ostacolata da tale limite.
I
sindacati portarono avanti, almeno in Italia, la lotta per la
riduzione dell’orario di lavoro fino a un certo punto, cioè fino
alle otto ore, poi abbandonarono quasi del tutto questa strada per
concentrarsi quasi unicamente sull’aumento delle paghe. E cosa dire
dell’orario “generazionale”, questione mai seriamente presa in
considerazione? Perché chi ha cinquant’anni deve lavorare quanto
chi ne ha trenta? Sarebbe più logico pensare a una graduale
riduzione del tempo di lavoro col progredire dell’età.
In
tempi più recenti, CGIL, CISL e UIL hanno insistito sulla riduzione
delle tasse sul lavoro, abdicando di fatto al loro ruolo conflittuale
nei confronti del capitale e rivolgendosi come questuanti ai governi
di volta in volta succedutisi. Anche una riduzione delle tasse, però,
è pur sempre un aumento delle retribuzioni, seppure non va a
incidere sui rapporti di forza col capitale. In entrambi i casi,
tuttavia, si tratta di una visione economicistica. L’idea è che
guadagnare di più significhi sempre vivere meglio, pertanto si deve
lavorare di più per guadagnare di più. Raggiunto l’obiettivo
minimo delle otto ore, l’unico miglioramento della vita dei
lavoratori può venire dall’aumento del loro reddito. In realtà il
reddito è solo una delle componenti, alla quale però i sindacati
hanno sacrificato tutto il resto. Altre componenti sono la
soddisfazione per l’ambiente di lavoro (cioè i rapporti con i
colleghi e con i capi, la sicurezza e l’adeguatezza dei luoghi
fisici di lavoro, non dover subire minacce e angherie…) la certezza
del proprio impiego (non dover temere di perdere il lavoro
all’improvviso e quindi norme che impediscano la precarietà)
l’assenza di eccessivo logoramento psico-fisico, la possibilità di
avere una vita extra-lavorativa soddisfacente e che non sia
pregiudicata dal lavoro (turni concordati tra dipendenti e azienda,
trasferimenti non obbligatori…). Riguarda queste ultime due anche
un orario di lavoro accettabile e compatibile con la situazione
personale e familiare di chi lavora.
Il
tempo è una componente fondamentale dell’esistenza umana. Esso è
irreversibile
e irriducibile:
non si può “rimettere indietro la lancetta” e non si può
convertito in qualcos’altro. Monetizzare
il tempo è un’illusione. Lavorare di più per guadagnare di più è
sempre una perdita per il lavoratore (seppure, a volte, può essere
una triste necessità, ma proprio questo dovrebbe cercare di evitare
un sindacato). Infatti quella ricchezza in più che si riceve viene
“bruciata” dal minor tempo a disposizione. Un’altra
caratteristica del tempo è che esso è una cornice
universale dell’agire umano;
nessuna attività può avvenire al di fuori del tempo e per fare
qualunque cosa si impiega un certo tempo. Se il lavoro comporta più
tempo, quindi, vuol dire che se ne avrà di meno per fare tutto il
resto, cioè si faranno meno cose, quindi si sarà “più poveri”,
anche se si guadagna di più (o comunque il reddito monetario è solo
un reddito al lordo del tempo a disposizione, per così dire). Ecco
perché il tempo è la componente fondamentale della condizione
lavorativa, a torto spesso trascurata dai sindacati (e a volte dagli
stessi lavoratori).
Abbassare
il tempo di lavoro avrebbe diversi vantaggi per i lavoratori e per la
società in generale:
- Farebbe aumentare l’occupazione, perché le aziende sarebbero costrette ad assumere di più.
- Farebbe crescere i redditi da lavoro: sia la paga oraria direttamente, che il salario complessivo indirettamente, perché aumentando la domanda di lavoro da parte delle imprese aumenterebbe anche il prezzo.
- Rafforzerebbe i lavoratori e i sindacati, perché un alto livello di occupazione assicurerebbe un elevato potere di contrattazione.
- Obbligherebbe le imprese a investire, rendendo possibile un ciclo economico favorevole.
- Una “progressione inversa” dell’orario di lavoro al crescere dell’anzianità permetterebbe un precoce ingresso dei giovani nel mondo del lavoro senza dover costringere i più anziani che vogliono restare al pensionamento anticipato e quindi ridurrebbe la disoccupazione giovanile che nel nostro paese è tra le più alte al mondo
- Aumentando l’occupazione giovanile aumenterebbe anche la capacità produttiva della società, perché permetterebbe di lavorare a individui nel pieno delle energie psichiche e fisiche e che oggi sono esclusi.
- Dai punti precedenti si deduce anche che, con un incremento significativo dell’occupazione giovanile e di quella complessiva, si potrebbe abbassare l’età pensionabile e aumentare le pensioni, perché aumenterebbe sia la produttività di tutta la società che quella individuale.
Date
le attuali condizioni, non è più possibile percorrere questa strada
per via sindacale. Con la flessibilità creata da leggi
ultra-liberiste, infatti, i lavoratori non hanno la forza per
rivendicare orari più accettabili. In effetti il tempo di lavoro si
è ridotto, ma a danno del reddito. A causa della disoccupazione in
molti casi si lavora di meno, ma naturalmente la condizione dei
lavoratori non è migliorata, perché vengono loro tolti anche i
mezzi di sostentamento. Se prima il rapporto tra reddito monetario e
tempo di lavoro era squilibrato a favore del primo, oggi è
squilibrato a favore del secondo (in media). La situazione è
indubbiamente peggiorata, dato l’alto livello della disoccupazione
e la deflazione dei salari. Si tratta di trovare un nuovo equilibrio
che assicuri paghe accettabili, ma senza allungare il tempo di
lavoro. Vista però la neutralizzazione dei sindacati, questo
equilibrio può essere conseguito solo per via politica. Esso deve
essere lo scopo primario di quella forza (che a oggi non esiste
ancora) che volesse difendere gli interessi del lavoro.
È
necessario soprattutto, in questo momento storico, cambiare un certo
modo di pensare. L’idea che ogni individuo debba lavorare tanto per
permettere il funzionamento della società. Ciò è falso, meno si
lavora individualmente, più si lavora collettivamente, più saranno
gli occupati e migliori saranno le paghe. Bisogna superare, inoltre,
quella concezione moralistica che vede come qualcosa di eticamente
disdicevole lavorare poco, come se non si facesse il proprio dovere
fino in fondo. Nella nostra società la stanchezza (a causa
dell’eccessivo carico del peso della produzione che grava
interamente su pochi individui) impedisce di fare “il proprio
dovere” molto più della pigrizia. Si devono anche riconsiderare i
sistemi di retribuzione. Non esistono solo quelli monetari; questi
sono validi soprattutto fino a una certa soglia, quella che permette
un’esistenza socialmente accettabile; oltre questa soglia, al
crescere della retribuzione, non cresce la felicità, ma soltanto il
potere consumistico. Sarebbe semmai importante retribuire i
lavoratori non soltanto in denaro, ma in tempo
di vita.
È il tempo la vera ricchezza, quella che consente di svolgere
qualsiasi attività in modo sereno e appagante e anche di lavorare
nelle migliori condizioni, senza il peso di una stanchezza eccessiva
e logorante o della monotonia di azioni ripetute troppo a lungo.
È
essenziale, soprattutto, archiviare una concezione fatalistica e
superstiziosa, oggi purtroppo in voga, secondo cui non vi è
alternativa all’attuale assetto socio-economico di tipo
liberal-capitalistico, in cui il mercato è il sovrano assoluto. Al
contrario, è solo la volontà dei soggetti, o la loro passiva
rassegnazione e il loro cinico disinteresse, a rendere il contesto
nel quale essi agiscono irrimediabile. L’agire dei soggetti
coalizzati non può non mutare anche il contesto, qualora sia
orientato in questo senso.
È
un modo di pensare che va profondamente mutato, e che troppo spesso
viene accettato acriticamente, quello che induce a vedere la
realizzazione dell’individuo nel denaro, nel consumo e in un
moralismo del lavoro.
Si
parla molto di libertà.
La si esalta come il bene più prezioso e il valore supremo della
nostra società. Ma cos’è la libertà se non tempo
libero
(nel senso letterale e non come semplice periodo complementare a
quello lavorativo)? Il tempo libero è il tempo impiegato nella
realizzazione di se stessi, del proprio io (e quindi anche di quello
degli altri, perché le due cose sono congiunte) che sia tempo di
lavoro o meno. Lavorare poco non significa soltanto vivere meglio
quando non si lavora, ma anche rendere il lavoro una delle attività
appaganti per l’individuo, togliergli quella centralità di cui
gode attualmente, ma restituirgli l’umanità
che ha perso nel momento in cui è diventato attività alienante
perché sottomesso alle necessità del profitto. Significa cominciare
(o ricominciare)
a pensare una società diversa, nella quale la moneta sia soltanto un
segno e non un valore, nella quale il lavoro sia solo una delle
attività che contribuiscono al bene sociale, nella quale la pienezza
dell’esistenza individuale si misura col tempo e non col consumo.
*Pubblicato anche sull'Intellettuale dissidente
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