30 giu 2017

La teologia delle privatizzazioni*

La Prima Repubblica era fondata sulla partecipazione statale. Non era possibile altrimenti, perché lo sviluppo che si è avuto nel dopoguerra non era concepibile senza l’apporto decisivo dei finanziamenti pubblici. Era lo stesso capitalismo in embrione che, per crescere, aveva bisogno dell’intervento dello Stato. Ma quando il capitalismo è cambiato, quando non ha avuto più necessità di appoggiarsi alla mano pubblica, e anzi questa diventava un ostacolo all’ulteriore espansione dei profitti, ecco che ciò che fino a quel momento veniva considerato come necessario, diventava improvvisamente superato e “inefficiente”.
Così, dagli anni Novanta, nel nostro paese si è incominciato a parlare di privatizzazioni. Ciò è avvenuto anche a causa di una mutata cornice politica nazionale e internazionale: non c’era più il PCI, come tutti i partiti maggiori della Prima Repubblica, i quali erano, almeno in parte, statalisti (DC e PSI); non c’era più l’Unione Sovietica che serviva da monito e avvertimento per il capitalismo occidentale. La sinistra era diventata liberista e si trovava in prima fila nel promuovere la dismissione dei beni pubblici. Le ragioni della sua urgenza venivano individuate nella necessità di ridurre il debito pubblico, di  rendere le aziende statali (“carrozzoni”, come venivano chiamate) più efficienti e competitive e, infine, di contrastare fenomeni di corruzione e clientelismo.
A distanza di oltre vent’anni si può dire che nessuno di questi scopi è stato raggiunto. Il debito pubblico non è diminuito (se non di poco per un breve periodo, per poi tornare di nuovo a crescere più di prima) le aziende privatizzate non sono più efficienti, anzi, presentano numerosi disservizi e hanno rischiato il fallimento, l’illegalità esiste nel privato tanto quanto nel pubblico. Gli effetti delle privatizzazioni, senza il bisogno di scomodare dati tra l’altro inoppugnabili, sono evidenti empiricamente a chiunque. Se si prende il caso dell’Enel, i costi per l’utenza sono aumentati, a fronte di un peggioramento nella qualità del servizio. Subito dopo la privatizzazione dell’energia elettrica gli investimenti industriali impegnano solo il 30% dei fondi dal 59 del quinquennio precedente. Stesso discorso per le Autostrade, dove crollano i cavalcavia perché la società risparmia sulla manutenzione e le tariffe hanno raggiunto livelli inediti noti a qualsiasi automobilista, mentre i ricavi sono cresciuti in misura considerevole.
Ma ciò non è bastato e si è continuato ossessivamente a ripetere il mantra delle privatizzazioni, alimentato dai sacerdoti delle facoltà di economia (quelli che hanno sbagliato tutte le previsioni) che sono giunte all’ultima tranche con la quotazione in borsa delle Poste e di una parte delle Ferrovie (nessuno si domanda cos’altro ci si venderà quando si sarà venduto tutto).
Che cos’è che non funziona nella privatizzazioni? Non si tratta del “modo” in cui si è privatizzato: gli stessi effetti si notano infatti in tutti i settori, anche in quelli maggiormente liberalizzati, come la telefonia (contrariamente alla filastrocca della liberalizzazione del mercato come passo successivo alla privatizzazione per renderla benefica). Non si tratta di una qualche tara nazionale, che come spesso avviene, nasconde le vere cause dietro un pregiudizio autorazzista. Gli stessi disagi, infatti, si possono osservare in molti altri paesi, anche quelli considerati dalla retorica autorazzista come “virtuosi” (basti pensare all’Olanda dove la privatizzazione delle poste ha causato la chiusura del 90% degli uffici). Il vero problema è strutturale, e riguarda la differenza tra utilità privata e aziendale e benessere pubblico e sociale. Le due cose non coincidono. Non si tratta affatto di un assunto banale, perché molti economisti hanno teorizzato il contrario. Secondo l’ideologia liberista se ogni individuo privato agisce per il proprio interesse personale, questo, per una sorta di congiunzione astrale, dovrebbe assicurare il benessere collettivo. L’individuo è l’unico a conoscere il proprio interesse e l’unico a sapere come soddisfarlo, ma così facendo, egli, collaborerebbe senza volerlo al benessere di tutti. Questa credenza religiosa (perché tale è) prima ancora che filosofica – e solo conseguentemente economica – è il vero fondamento del liberismo. Per questo i liberisti credono nelle virtù salvifiche del mercato, dove ogni operatore ricercando il proprio guadagno lavorerebbe per il bene collettivo. Questa teoria è stata sviluppata nel XVIII secolo per un’unica ragione: contrastare il potere dello Stato; lo Stato non sarebbe “per natura” in grado di assicurare il bene né per l’individuo, né (e questa è la vera innovazione del liberismo) per la società. L’unica possibilità è che lo Stato sia ridotto alle funzioni essenziali e il resto venga lasciato alla libera contrattazione dei privati (che in realtà, poi, tanto “libera” non è). Così per i liberisti privatizzare è un imperativo ideologico e religioso, non “tecnico” e scientifico. Per loro la gestione statale è sempre sbagliata e quella privata sempre corretta.
Fatta questa parentesi, torniamo alla distinzione tra interesse privato e interesse collettivo. Poiché per i liberisti le due cose coincidono – in quanto, come si è detto, agendo il soggetto privato per il proprio interesse agisce anche, involontariamente, per l’interesse di tutti – l’utile aziendale vuol dire sempre un beneficio per la società. Peccato però che i fatti, come diceva qualcuno, “hanno la testa dura” e non ne vogliono sapere delle teorie dei liberisti. Si possono aumentare i profitti, certo, investendo, assumendo nuovi lavoratori, ampliando la produzione, migliorando il prodotto, persino aumentando i salari. Ma questa non è la via comunemente scelta, soprattutto nell’attuale periodo storico nel quale si tende a tagliare investimenti, posti di lavoro, salari e a risparmiare sulla qualità del prodotto. Ciò assicura guadagni agli azionisti, ma non si può certo dire che comporti un bene per la società, poiché fa crescere la disoccupazione, rende beni e servizi più costosi e riduce i salari dei lavoratori. Il bene privato non coincide con il bene pubblico, e questa è una verità difficilmente contestabile.
Perché allora i liberisti si ostinano a sostenere il contrario? Sicuramente in parte lo fanno per fede: piuttosto che rimettere l’ideologia in discussione preferiscono negare la realtà: è una difesa psicologica abbastanza comune e diffusa. Ma questo non basta a spiegare la ragione per cui una teoria errata (e, in questo caso, palesemente e clamorosamente errata) continua a resistere. C’è un altro motivo, che va ricercato non nelle idee e nelle credenze, ma nel fatto materiale “nudo e crudo”. La domanda che bisognerebbe porsi ogni volta che si valuta la fondatezza di una teoria è: “a chi giova e a chi nuoce?” ovvero: “a quale gruppo sociale conviene e quale gruppo sociale penalizza?”. Rispondere a questa domanda significa aver fatto luce su buona parte dei fondamenti della teoria. Nel nostro caso, quindi, chiedendoci a chi giovino il liberismo e le privatizzazioni, la risposta non può che essere: ai grandi colossi industriali e finanziari. Le privatizzazioni sono state una irrinunciabile opportunità di guadagno per le multinazionali, che hanno potuto acquisire ex aziende pubbliche indebitate, ristrutturarle e rivenderle realizzando così immensi profitti. In una fase del capitalismo di saturazione dei mercati, le aziende pubbliche hanno rappresentato la “gallina dalle uova d’oro”. Questa e soltanto questa è la ragione del persistere delle privatizzazioni compulsive e delle mistiche che hanno il compito di giustificarle. L’elemento ideologico, come insegna Marx, è sempre unito all’elemento economico. Una certa visione del mondo può imporsi solo laddove si saldi con gli interessi materiali di un gruppo sociale abbastanza forte.










*Pubblicato anche sull'Intellettuale dissidente

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