31 ago 2017

Limiti e degenerazioni del nominalismo femminista


Con "nominalismo femminista" intenderemo la tendenza ricorrente tra le femministe contemporanee, a intervenire al livello dei segni per condizionare la percezione e la rappresentazione dei soggetti in modo non discriminatorio. Questa è la ragione dell'insistenza sulla vocale femminile da usare al posto di quella maschile, che servirebbe, a loro dire, a castrare le donne o a impedirne l'accesso a certi ruoli sociali (dire avvocato, dottore, presidente, ecc. soltanto al maschile significa pensare implicitamente questi ruoli di pertinenza esclusiva degli uomini).
Quest'idea nasce dal concetto di "politically correct", sviluppato nelle università statunitensi, il quale si basa su una tesi: la lingua non è neutra, non è indifferente rispetto alle visioni del mondo, ma è connotata ideologicamente. Di conseguenza, per evitare l'esclusione di alcuni gruppi sociali (le donne, i neri, gli omosessuali, i disabili, le minoranze religiose, ecc.) bisogna cambiare il lessico.
L'idea non è cattiva di per sé e contiene un fondo di verità. Davvero la lingua non è neutra, davvero è un veicolo di ideologia e davvero i significanti determinano i significati. 
Tuttavia essa presenta un limite importante. Nella sua formulazione, infatti, non è stata storicizzata. Di conseguenza si tende a pensare che certi significanti veicolino SEMPRE certi significati e non altri. Questo perché i teorici del politically correct hanno finito per intendere la lingua come un fatto non ulteriormente determinato. Il "parlare", cioè, determina il "parlato" come, però, se non fosse a sua volta determinato. Eppure c'è una relazione inestricabile tra significante e significato, tra la forma e l'oggetto del discorso.
In altre parole, hanno voluto analizzare la società a partire dalle strutture linguistiche, ma si sono dimenticati, poi, di fare l'inverso: analizzare le strutture linguistiche a partire dalla società. Il risultato è stato che la società è cambiata, e con essa la lingua, e loro non se ne sono accorti. 
Cosa c'è che non funziona nel "politically correct" (continuerò a scriverlo in inglese per non dimenticare la sua origine anglofona, che è tutt'altro che indifferente) e nel nominalismo femminista? Una mancata comprensione non a livello linguistico, ma al livello dei rapporti economici e sociali. Il lessico discriminatorio esisteva all'interno di un certo tipo di società, nella quale l'esclusione di alcuni gruppi sociali era un carattere primario e necessario alla struttura di classe. I neri degli Stati Uniti dovevano essere discriminati per poter essere prima sfruttati nelle piantagioni come schiavi e poi come manodopera a basso costo. Le donne, invece, dovevano essere escluse da alcuni ruoli sociali, in modo da conservare integra la proprietà delle classi egemoni nella successione e tramandarla interamente (o principalmente) al primogenito maschio. Ma lo sviluppo del capitalismo ha fatto sì che questa conformazione dovesse essere superata, perché le donne servivano. Per allargare la produzione, e creare quindi quadri intermedi, bisognava permetter loro di entrare nel circuito produttivo con la speranza di fare carriera fino ai massimi livelli. Ciò poneva, inoltre, come necessità imprescindibile, l'espansione dei consumi, e quindi il lavoro, anche ben retribuito, della donna. Tra l'altro un certo femminismo non liberale era fortemente critico rispetto all'inclusione della donna nell'organizzazione produttiva e nel perseguimento dell'eguaglianza attraverso l'imitazione e la riproduzione della società maschile. Purtroppo queste voci rimasero per lo più inascoltate. L'espansione capitalistica implicava sempre più il coinvolgimento della donna non solo nella produzione ma anche nei consumi. Perciò tutti quei limiti che fissavano la donna in un certo ruolo dovevano venire a cadere. Questi limiti riguardavano in particolare la sfera sessuale e dei costumi. La donna non doveva più essere castrata dal padre-marito, ma disinibita, non doveva celarsi, ma mostrarsi. 
Che relazione ha tutto questo con la lingua? la sua funzione discriminatoria viene a cadere e viene sostituita da una funzione inclusiva. Per questo oggi si cerca di ridefinire il lessico in modo da includere le donne (come anche omosessuali, trans, ecc., anch'essi categorie da sfruttare consumisticamente). La lingua non ha più una funzione discriminatoria, "sessista", nei confronti delle donne, seppure restano delle sedimentazioni. Anzi, queste sedimentazioni a livello simbolico servono proprio a legittimare la strategia inclusiva del capitalismo contemporaneo e a inserire le donne (e per loro tramite anche gli uomini) nei meccanismi di consumo: vi vogliono coprire? mostratevi! vi vogliono castrare? sessualizzate il vostro corpo! vi vogliono impedire di raggiungere i massimi gradi della gerarchia sociale? fate carriera!
Il linguaggio maschilista non ha più una funzione di esclusione. Anzi, ne nasce uno nuovo che ha il preciso scopo di includere. Lo vediamo non solo nel lessico che ci impone di dire, contravvenendo perfino alla sintassi (con l'incredibile accordo da parte di molti linguisti, o forse non così incredibile) "avvocata", "presidenta", "dottora" (quando il suffisso femminile esiste già in -essa) ma anche in altre forme di comunicazione, nella pubblicità, nella moda; nella lingua, soprattutto quella giornalistica, fa un uso abnorme di neologismi e di anglicismi (l'utilità dell'inglese per il linguaggio inclusivo lo vediamo, ad esempio, nell'uso dell'espressione "sex worker" al posto di "prostituta", con il fine di liberalizzare il sesso a pagamento). 
I condizionamenti linguistici e simbolici esistono, eccome, ma oggi servono non per discriminare le donne, ma per includerle nel sistema di consumo e per sfruttarne il corpo come merce. Questo, ahimè, le femministe, salvo sparute eccezioni, tardano a capirlo, e collaborano esse stesse allo sfruttamento post-patriarcale e ultra-capitalistico della donna.

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