L’8
marzo scorso si è tenuto lo “sciopero generale delle donne”, la manifestazione
internazionale delle femministe, in Italia vi hanno aderito diversi sindacati,
con lo scopo di contrastare la violenza contro le donne e altre forme di
discriminazione. Questa manifestazione ne richiama altre e si colloca sull’onda
di una serie di iniziative per i diritti delle donne in Italia come all’estero
(si ricorderà, negli Stati uniti, la marcia contro Trump).
Negli
ultimi anni il femminismo ha ricevuto molta attenzione da parte dei media, così
come alcuni suoi temi sono stati pubblicamente dibattuti e, in alcuni casi,
hanno dettato anche l’agenda politica.
La
domanda che ci porremo in questa sede è: il femminismo, oggi, è ancora un
interprete affidabile non soltanto delle esigenze delle donne, ma anche delle
questioni sociali più urgenti, come aspira ad essere?
Femminismo
e questione sociale
Si
tratta di un rapporto coltivato assiduamente, in passato, dal femminismo di
matrice marxista. Tuttavia l’epoca attuale ha visto le femministe sempre più
allontanarsi dalle questioni che allora venivano definite “di classe”. In altre
parole, a un certo momento della storia, è fuoriuscito da più ampi movimenti di
emancipazione delle classi sfruttate e ha finito per legittimare,
implicitamente quando non apertamente, il modo di produzione e la struttura
economica.
Dagli
anni Settanta un filone del movimento femminista decise di rifiutare il
marxismo e il socialismo, all’interno dei quali si era sviluppato; questa
scelta, si deve al separatismo e in Italia è stata teorizzata soprattutto da
Carla Lonzi, determinando gli esiti attuali.
Se
il femminismo rompeva col socialismo accadeva, nel frattempo, una mutazione
della società: il trionfo “definitivo” del capitalismo (non perché fosse
realmente tale, come nulla è nella storia, ma perché come tale si rappresentava)
e la rinuncia alle istanze anticapitaliste. Mentre questo avveniva, culminando con
la caduta del Muro di Berlino, il femminismo aveva già distinto se stesso dalla
lotta contro il Capitale e aveva designato come proprio nemico esclusivo il
Patriarcato. Il problema è che ciò veniva affermato proprio in una fase di declino
del Patriarcato e di una nuova “rivoluzione capitalistica”, quella del dominio
oligarchico non mediato e del mercato globale, una rivoluzione che trovava per
la prima volta pieno compimento dopo aver abbattuto tutti gli ostacoli
politici, ideologici e culturali.
In
questa “rivoluzione”, le formazioni ideologiche capitalistiche mutavano. Il
capitalismo si sbarazzava (o perlomeno cominciava a farlo e oggi vediamo come
questo processo sia giunto a compimento) di certi suoi strumenti repressivi, in
particolare della inibizione e della castrazione del corpo e del desiderio
sessuale. Se, infatti, nella fase precedente aveva bisogno di trattenere almeno
in parte energie potenzialmente sovversive e di reprimere le pulsioni per
includere gli individui nell’irregimentazione produttiva (magari permettendo,
per altra via, uno “sfogo” controllato delle pulsioni represse) nella fase
postmoderna esso deve, invece, modellare l’individuo consumatore, quindi svincolarlo
dal corpo sociale e lasciare libero sfogo alle pulsioni; anzi, deve eccitare,
provocare, amplificare e manipolare i desideri. Il Patriarcato, che in passato
era servito a riprodurre le strutture sociali capitalistiche, diventa ora,
perciò, strumento inservibile, di cui disfarsi.
Ecco,
dunque, che il Capitale trova, a questo scopo, un utile alleato nel femminismo
separatista e “post-ideologico”, che gli consente, per di più, di incanalare la
protesta a proprio favore.
Le
femministe hanno finito per far proprie istanze propriamente
pro-capitalistiche, ne è un esempio la rivendicata aspirazione delle donne a
ricoprire i massimi gradi della gerarchia sociale. Se il capitalismo a uno
stadio di “arretratezza” escludeva le donne, prima come produttrici e poi come
consumatrici, il suo nuovo movimento tende sempre più a includerle. Il
femminismo si è allineato a questa tendenza generale, considerandola fattore di
emancipazione per le donne nella lotta contro il Patriarcato. Tuttavia, non è
più in grado di cogliere – proprio perché si è ormai distaccato dai mezzi
ideologici adeguati – il carattere di classe di questa “emancipazione”. Mentre
si celebra la “liberazione” delle donne dalle catene della castrazione
maschilista, lo sfruttamento delle donne, come degli uomini, delle classi
inferiori si inasprisce, venendo a mancare tutte le protezioni sociali.
Il
femminismo assume un profilo “progressivo” solo di fronte a configurazioni
arcaiche del potere (quelle repressive e castranti) ma accetta nella sostanza e
supporta la restaurazione postmoderna (de-inibita e sessualizzante). E ciò si
deve al fatto che il femminismo si è troppo concentrato nel contrasto e
nell’analisi dei mezzi del potere, che, in quanto mezzi, possono essere
sostituiti, ma non sulla critica della struttura del potere. Il potere,
infatti, non si esercita soltanto negativamente, ma anche in positivo: “un
dispositivo molto diverso dalla legge, anche se poggia localmente su procedure
d’interdizione, assicura, attraverso una rete di meccanismi connessi gli uni
agli altri, la proliferazione di piaceri specifici e la moltiplicazione di
sessualità disparate”*.
Le femministe, nelle loro rivendicazioni, affermano “Scioperiamo contro l’immaginario misogino sessista, razzista, che discrimina lesbiche, gay e trans”. Nulla viene detto, però, sulla principale discriminazione della nostra epoca, ovvero quella di classe che distingue le persone in base al loro accesso alle merci. Una “assenza rivelatrice”, che dice quanto il femminismo, come del resto molti movimenti di protesta, sia oggi compromesso col sistema sociale di sfruttamento.
Le femministe, nelle loro rivendicazioni, affermano “Scioperiamo contro l’immaginario misogino sessista, razzista, che discrimina lesbiche, gay e trans”. Nulla viene detto, però, sulla principale discriminazione della nostra epoca, ovvero quella di classe che distingue le persone in base al loro accesso alle merci. Una “assenza rivelatrice”, che dice quanto il femminismo, come del resto molti movimenti di protesta, sia oggi compromesso col sistema sociale di sfruttamento.
La
mediatizzazione del femminismo
Le
femministe combattono il Patriarcato, e non si può negare quanto quest’ultimo
abbia oppresso e talvolta tutt’ora ancora opprime, nonostante sia in declino
irreversibile, le donne.
Ma
esiste una nuova forma di oppressione che, come si è detto, non reprime e non
castra il corpo femminile, ma lo manipola e lo espone. Questo accade nella
comunicazione, e non riguarda “il linguaggio sessista”, la vocale finale
maschile al posto di quella femminile, ma qualcosa di molto più potente e
colonizzante. Ed è l’esposizione del corpo della donna la sua
iper-sessualizzazione e la sua mercificazione. La pubblicità tratta il corpo
della donna come “merce universale”, ovvero un particolare tipo di merce che
rende appetibile qualsiasi altra merce. Se si vuole vendere una merce le si
attribuiscono caratteri sessuali femminili.
Il
capitalismo consumista manipola il corpo della donna per renderlo universalmente
fruibile (altro che “il corpo è mio e lo gestisco io”!) esso deve essere sempre
mostrato e deve sempre sedurre e attirare, provocare ed eccitare. Il corpo
della donna deve essere sempre, costantemente, desiderato e deve quindi farsi
desiderare. Le femministe non sembrano essere consapevoli di ciò, anzi, esse
hanno spesso contribuito a rendere il corpo e l’immagine della donna sempre più
fruibile per la società dei consumi, sempre più merce universale, partecipando
al processo di mediatizzazione della figura femminile.
“Agiamo”
scrivono le promotrici della manifestazione “con ogni media e in ogni media per
comunicare le nostre parole, i nostri volti, i nostri corpi ribelli, non
stereotipati e ricchi di inauditi desideri”. Inneggiano alla mostra del corpo e
all’eccitazione dei desideri di cui si serve il potere postmoderno, un potere
manipolatore seppure non patriarcale. In numerose proteste le troviamo in atti
provocatori a incitare e mostrare, a scandalizzare, quando lo scandalo (che per
essendo inflazionato deve spostare l’asticella della provocazione sempre più in
alto) serve proprio a eccitare il desiderio della donna e per la donna
venditrice di se stessa.
Riformulare
il femminismo
È
inutile farsi illusioni, il femminismo non può operare oggi con le stesse
strategie di ieri. Bisognerebbe innanzitutto prendere atto che la corrente del
femminismo oggi prevalente non si è rivelata fruttuosa. Ha partecipato di una
tendenza già dominante, quella di rendere la donna consumatrice e oggetto di
consumo, e ha esaurito il suo carattere dissidente.
Se
il femminismo intende, oggi, farsi interprete della questione femminile, per
come può oggi essere intesa, non può esimersi dalla critica della struttura
economica e dai processi di esclusione non soltanto dei sessi – come
conseguenza delle incrostazioni del passato – ma anche delle classi. Deve
altresì rimodulare la sua strategia, esigendo non la mostra, l’esposizione e
l’esibizione di sé, “diritto” già ampiamente concesso, quando non vero e
proprio obbligo e metodo di inclusione
della donna nei processi di riproduzione dell’ordine sociale. Hanno bisogno, le
donne, di “rilassare” la propria immagine, desessualizzarsi, celarsi, sfuggire
all’esibizione del corpo. Solo in questo modo potranno sganciarsi dal sistema
di sfruttamento pubblicitario e rivendicare un’autentica emancipazione.
*Michel Foucault, La volontà di sapere – Storia della sessualità 1, Feltrinelli, Milano, 2006, p. 48
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