31 lug 2017

Sarà una scuola modello "Carrefour"*

È l’ultima trovata dell’aziendalismo scolastico; la scuola aperta tutto il giorno, tutto l’anno. Lo propone oggi il Ministro Fedeli, ma lo proponeva ieri il suo predecessore Stefania Giannini, come altri prima di lei. Se ne parla da diversi anni, durante i quali si è più che altro preparato il terreno tra l’opinione pubblica, abituando all’idea di far rientrare i ragazzi dopo le lezioni, ad esempio per progetti didattici di vario tipo – già dal 1997, del resto, in virtù di una direttiva ministeriale, si prevedeva che le scuole restassero aperte – e infine, adesso, è venuta l’ora di mettere il piano realmente in pratica.
La scuola sempre aperta non è solo un’ulteriore sovrapposizione di ruoli, per cui la sua funzione di formare persone e cittadini trascolora in una marea di altre funzioni (adattare lo studente alla società, integrare le lezioni mattutine con incontri pomeridiani – come se la scuola cercasse di supplire a se stessa – perseguire sperimentazioni pedagogiche continue, introdurre nel mondo del lavoro, accogliere e recepire le richieste dei genitori come anche quelle dei figli, permettere di “parcheggiare” questi ultimi quando non ci si può occupare di loro, ecc.). La scuola sempre aperta è una follia, perché è folle questa ybris della società postmoderna, questa pretesa sentita come impellente e irrefutabile necessità di non avere limiti; l’apertura eterna, un prodotto umano che non deve avere una fine, o anche solo una sosta, un punto terminale, nello spazio come nel tempo, con un presente che si espande indefinitamente fagocitando il passato e il futuro; “H 24” è diventata la sigla immancabile da apporre a ogni attività umana che si voglia efficiente e apprezzabile.
Nella scuola senza fine l’apprendimento, che predispone l’allievo alla maturazione individuale, viene sostituito dall’adattamento. Lo studente più che imparare a essere nella comunità acquisisce skills, competenze che gli consentano di adeguarsi alle esigenze produttive. Subisce subito lo sfruttamento lavorativo con “l’alternanza scuola-lavoro” introietta l’attivismo senza sosta e senza fine delle aperture festive dei supermercati, acquisisce il metodo delle soluzioni pratiche immediate a problemi complessi attraverso i test a risposta multipla, perché non avrà tempo per pensare e riflettere e del resto non glielo si chiede. Invece di imparare a pensare l’alterità, deve sviluppare strategie di sopravvivenza. Il sistema di debiti e crediti formativi, che ha introdotto una sorta pedagogia della contabilità, serve a questo scopo. Lo studente deve introiettare la tendenza alla monetizzazione e alla commercializzazione della sua esistenza.
Ma il piano per la scuola postmoderna non riguarda soltanto gli studenti. Ci sono anche i lavoratori della scuola, che già ora, in gran parte, sono costretti anch’essi a lavorare nei festivi, e, tra di essi, infine, gli insegnanti, di cui si dice che lavorino troppo poco e che abbiano troppe vacanze. Si aizzano contro di loro gli altri lavoratori, suscitandone l’invidia, nella classica strategia neoliberale di mettere gli ultimi contro i penultimi. Di far lavorare meno gli altri lavoratori, invece che far lavorare di più gli insegnanti (come se non lavorassero già abbastanza al di fuori dell’orario scolastico) è un’ipotesi che non sfiora neanche l’immaginazione di questi ferventi promotori dell’efficientismo insensato, nonostante numerosi studi mostrino che il rendimento peggiora e non migliora al prolungamento dell’orario di lavoro e che viceversa migliora al ridursi delle ore lavorate. Ma no; per gli aziendalisti il lavoro è un obbligo indipendentemente dai suoi effetti, e questo si chiama moralismo. Per le consorterie aziendali, invece, è lo sfruttamento svincolato dalla necessità di rispettare leggi che tutelino il lavoratore, e questo si chiama capitalismo neoliberale.
Non si tratta soltanto di un piano per l’istruzione. Si tratta di un piano che rientra in un programma più generale volto a plasmare la società secondo i comandamenti del neoliberismo. La scuola non deve insegnare a essere e a pensare, perché l’individuo non deve essere e pensare, ma consumare; la scuola deve essere solo una sorta di primo master aziendale, che introduca i giovani nella produzione, gli insegni le nozioni tecniche necessarie e le strategie pratiche di sopravvivenza, perché bisogna interiorizzare l’ubiquità dell’economia e del mercato; la scuola sottopone insegnanti e studenti a orari prolungati, perché accettino di essere flessibili, di modificare la propria vita personale in funzione del mercato e del profitto.
In sostanza, la scuola postmoderna, preparata da decenni, costruita nel tempo e oggi infine attuata, deve far dimenticare l’esistenza dell’altro. “Non avrai altro dio all’infuori di me” recita il primo comandamento neoliberale: non c’è spazio per immaginare una diversa forma sociale, che si fondi su basi diverse. La scuola non è più il luogo dell’autonomia e dell’indipendenza della cultura dove costruire pensieri e pratiche dell’alterità, la scuola è diventata il luogo in cui si interiorizza la necessità del dato (abbiamo  il culto di “dati” e “statistiche”, concepiti come fossero parti neutre e a-ideologiche) e la sua immutabilità. Così, la scuola, come e più di altre istituzioni, non può diversificarsi dalla società, ma deve il più possibile somigliargli. Deve essere un’azienda che produca individui adattabili e consumatori assuefatti, ma, ancora di più, un centro commerciale della cultura, attivo, come i centri commerciali dell’ultima generazione, tutti i giorni e a qualsiasi orario.









*Pubblicato anche sull'Intellettuale dissidente

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